Un medico. Informatori scientifici del farmaco. Un lavoro di m …

Abbiamo ripescato nei nostri archivi una descrizione del lavoro di ISF fatta da un medico nel 2007. Nonostante i fatturati sempre in incremento, dal 2007 sono stati licenziati 15.000 informatori su 30.000 e nonostante le leggi, molti degli ISF sono ancora vessati e licenziati per i dati di vendita. Dato che poco è cambiato e molto è peggiorato riproponiamo alla riflessione dei nostri lettori le considerazioni di questo medico.

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E’ finita la loro vacanza. Cominciamo a rivederli in sala d’attesa a condividere lo spazio con i nostri pazienti, con le loro borse aziendali ricolme a ricordare Mary Poppins, con i loro sorrisi.

Molti non li amano. Alcuni dedicano loro un lasso di tempo brevissimo e frettoloso. Altri li ascoltano in un reciproco rapporto formale e cortese.

Alcuni di loro per me son come amici. Alcuni son PROPRIO amici miei. Approfitto delle loro visite per rilassarmi un po’ del lavoro, o per concludere la giornata prima di smontare. Non ci metto molto a entrare in confidenza con loro, con quasi tutti tranne alcune eccezioni che preferiscono mantenere un rapporto prevalentemente professionale oppure orientare la mia tendenza al colloquio più amichevole per insinuarsi come promoter.

Ho sempre detto loro che fanno un lavoro di merda. Girano per un territorio regionale spesso molto vasto per vedere medici che spesso hanno pretese legate a tempi che ormai non esistono più, a tempi in cui le case farmaceutiche facevano comparaggio selvaggio. Son sottoposti a continui controlli da parte di superiori e di un’organizzazione di lavoro bizzarra, irrazionale, basata prevalentemente se non esclusivamente su tecniche di marketing che a noi medici, soprattutto a noi psichiatri, fanno decisamente ridere. Gli “informatori scientifici del farmaco” lo sanno benissimo. Ingoiano palate di pillole amare (quasi tutti. Ci sono delle robuste eccezioni, ma son pochissime).

Quelli che son diventati amici miei son persone con cui ho potuto parlare al di là degli argomenti di lavoro. Fatti i discorsi inevitabili, con tanto di pieghevoli satinati, post-it, penne col logo, qualche volta libri di testo, passiamo ad altro. A parlarci dei rispettivi guai, a sfogarci gli uni gli altri delle difficoltà della vita, dei rispettivi lavori.

A parlare, spesso, di questioni squisitamente personali e private, per scoprire di essere persone a tutto tondo e non solo dei “ruoli”.

Alcuni di loro subiscono un sottile mobbing, tutti sono sottoposti al ricatto dei numeri, al peso di essere l’ultima ruota del carro di un mastodontico sistema che non esita ad usarli come capri espiatori di scelte che son fatte molto (ma molto) più a monte.

Bene o male tutti si devono barcamenare fra acque turbolente, col rischio di perdere un lavoro con scuse fra le più disparate. Ma spesso la ragione di mobbing, isolamenti, ricatti è una molto semplice: con l’età e l’esperienza acquisita diventano sempre meno manipolabili e diventa via via sempre più difficile imbrogliarli con tecniche di comunicazione raffinate e non, con “corsi” fatti da perfetti imbecilli che per il fatto di avere il curriculum pieno di “master” si intascano tanti quattrini senza aver mai conosciuto un microgrammo del lavoro di questa gente. Questi imbecilli (che nella nostra magnanimità chiamiamo “i masterizzati” quando siamo in vena di complimenti) finiscono per fare da giudici a professionisti laureati che lavorano magari da 20 anni.

Poi, è vero, ci sono i giovani rampanti. Perfetti nel look studiato dall’azienda, sfoderano parlantina sciolta nella quale si riconoscono tutte le già citate tecniche di comunicazione (ed è buffo, perchè man mano che parlano potrei quasi intravvederne i titoli). Quando cominciano con la pappardella, sorrido. Essa si svolge come un rosario, sempre identica a se stessa con l’unica variante del nome del farmaco, con le stesse pause “poggiate” negli stessi punti dei discorsi, con le loro domande mirate che, per strategia, prevedono una risposta indirizzata.

Mi diverto molto allora, perché li spiazzo dirottando le loro domande su altro, rispondendo a mia volta con domande, chiedendo loro qualcosa di personale sebbene solo in modo marginale. Chiedo loro, per esempio, se son stanchi per il viaggio, se hanno un territorio molto vasto, se si trovano bene a fare quel mestiere. Di solito così tutte le masterizzazioni subite si cancellano come i dati del bancomat in vicinanza di una calamita e smettono a poco a poco di essere ruoli per diventare persone.

Alcuni più scafati utilizzano, come dicevo, questa mia apertura per cercare di usarla per aumentare la prescrivibilità del farmaco. Con questi innesto il pilota automatico fatto di frasi fatte almeno quanto le loro, di sorrisi che si accendono da soli a seconda dei passaggi, con commenti apparentemente spontanei tipo: “Non ci avevo pensato” oppure: “Mi dai dell’altro materiale su questo?” aspettando come un falco il momento (e arriva sempre) in cui mi insinuo in una smagliatura della loro corazza di ferro e ritrovo, ancora una volta, la persona al di là del mestiere. Finora solo con una non mi è riuscito. Ma tant’è, questa era decisamente tonta.

E comunque chi ha imparato a conoscermi sa che, qualunque cosa possano dire, fare, baciare, lettera, testamento, io prescriverò sempre e solo il farmaco che va meglio al paziente, non a loro.

Pubblicato da Uyulala on 04 Set 2007 – Sacro Profano

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