Scotti (Fimmg), ‘fenomeno delle aggressioni tenderà ad aumentare perché cresce bisogno di salute e i cittadini non sanno cosa sia un triage’
“Bisogna formare le nuove generazioni già nelle scuole – spiega Scotti – puntando sull’educazione civica, educare i cittadini sull’utilizzo dei servizi pubblici. Ma il problema principale ad oggi è la totale carenza numerica di medici del territorio che stanno andando in pensione. E con le Case di Comunità sarà anche peggio”.
Per Scotti occorre “aumentare il personale negli ospedali e sul territorio ma è fondamentale anche orientare la formazione ai fabbisogni reali”. In altre parole, in Italia “servono meno dermatologi e chirurghi estetici. C’è, invece, un forte bisogno di medici di Medicina generale e di medici di Urgenza e Emergenza” conclude.
Fonte: AdnKronos
Violenza, Anelli (Fnomceo): “Se continua così, andremo via tutti”
Ultimo caso, la dottoressa aggredita a Taranto, che ora vuole dimettersi. “Perdere i nostri medici significa condannare il SSN”
È amareggiato il Presidente della Fnomceo, la Federazione nazionale degli Ordini dei medici, Filippo Anelli, che così si sfoga, ripercorrendo l’escalation di violenza di questo agosto: da Nord a Sud, nessun luogo di cura sembra esente. Da Chiari, in provincia di Brescia, a Castellamare di Stabia, da Massa Carrara a Crotone, da Monfalcone (Gorizia) a Bari, Lecce, Foggia, molte le aggressioni. Sino ad arrivare all’episodio denunciato ieri da una guardia medica, una specializzanda aggredita nella notte tra sabato e domenica nella sua postazione in provincia di Taranto. Dottoressa che, ora, vuole dimettersi, a nome di tutte le donne medico vittime di violenza. E quella delle dimissioni come risposta alla violenza è una conseguenza sempre più praticata, come avvertiva già mesi fa una campagna Fnomceo – che si è rivelata purtroppo profetica e che in questi giorni viene riproposta sui social – e come sottolineano i Sindacati medici.
“Evitiamo che anche questa collega – afferma Anelli – cui va tutta la nostra vicinanza, lasci il posto di lavoro. Chiediamo al Presidente Emiliano di garantirle sicurezza, in caso affidandole una sede diversa. Le sue dimissioni sarebbero una sconfitta per l’intero sistema e questo non possiamo permetterlo. Perdere i nostri medici, i nostri professionisti significa condannare a una lenta agonia il nostro Servizio sanitario nazionale”.
“Il Governo ha già messo in atto alcuni provvedimenti – riconosce Anelli – ma bisogna fare di più. Non basta la repressione per arginare un fenomeno che ha molte cause, prima tra tutte la scarsità del personale sanitario, dovuta a decenni di definanziamenti. Non basta la procedibilità d’ufficio, se gli episodi non vengono portati alla luce per celare disorganizzazioni e malfunzionamenti. Non bastano le attestazioni di solidarietà e di fiducia nei medici, se al primo intoppo diventano i capri espiatori di quello che non va”.
“Le numerose aggressioni di questi giorni – conclude Anelli – sono il sintomo inequivocabile di un malessere e di una difficoltà che rischiano di superare il punto di non ritorno. Un disagio che si può curare solo con i fatti, con investimenti adeguati e con politiche che restituiscano sicurezza e serenità ai curanti e ai curati”.
Non solo sanitari. L’incredibile escalation delle aggressioni ai lavoratori
Un operatore ambientale preso a calci; un postino aggredito per avere citofonato; infermieri e medici sotto tiro. Episodi di violenza che non si contano più
Maurizio Minnucci – Collettiva – 20 agosto 2024 (estratto)
Autisti, assistenti di volo, operatori sanitari, agenti della polizia penitenziaria, insegnanti di ogni ordine e grado, portalettere e via dicendo. È davvero lungo – e continua ad allungarsi senza sosta – l’elenco delle categorie di lavoratori che subiscono aggressioni mentre sono in servizio; un tema che per varie cause concomitanti sembra essere esploso negli ultimi anni e che puntualmente, ogni estate, sale agli onori delle cronache con i casi più assurdi, tanto da trasformarsi in una inedita battaglia per il sindacato.
(…)
SEI AGGRESSIONI IN QUATTRO GIORNI AL PERSONALE SANITARIO
A raccontarle è oggi (20 agosto) il quotidiano Avvenire elencando i luoghi delle aggressioni che non conoscono territorialità specifiche: Castellammare di Stabia (Napoli), Viareggio (Lucca), Galatina (Lecce), Foggia, Monfalcone (Trieste), Crotone: le vittime, come sempre, sono i medici e gli infermieri in prima linea, nelle ambulanze, nei Pronto Soccorso. Sembra passato un secolo da quando, rinchiusi nel lockdown, li chiamavano “eroi”.
Nota:
Gli atti di violenza a danno degli operatori sanitari costituiscono degli eventi sentinella che richiedono la messa in atto di opportune iniziative di prevenzione e di protezione.
Il fenomeno desta tanta più attenzione se si considerano le conseguenze che da esso derivano; shock, incredulità, senso di colpa, aumento dei livelli di stress: sono solo alcuni degli effetti che ciascun episodio può avere su ogni operatore coinvolto. E questo, oltre ad avere un impatto negativo sui costi della sanità pubblica e sull’efficienza organizzativa, interferisce con l’erogazione di cure di qualità.
L’ira e la violenza divengono le modalità con cui sfogare le energie negative che scaturiscono da fattori stressanti, e i luoghi di cura, caratterizzati dalla sofferenza e dall’urgenza, divengono il territorio più fertile per dare azione a queste energie, lasciando esiti spiacevoli in chi sta cercando di prendersi cura della persona bisognosa di assistenza.
Gli atti di violenza non sono degli eventi inevitabili, anzi è possibile, oltre che doveroso,
prevederli e prevenirli. La prevenzione è un’azione complessa che deve avvenire a più livelli: la formazione del personale, accompagnata a misure di sicurezza organizzative ed ambientali, contribuisce alla prevenzione e riduzione degli eventi aggressivi in maniera significativa, oltre che alla creazione di una cultura del lavoro in cui le persone sono trattate con rispetto da colleghi e superiori e dove il lavoro è riconosciuto come un bene supremo.
La corretta azione gestionale da parte delle direzioni sanitarie, la formazione del personale, lo studio del fenomeno e la modifica dell’ambiente sono gli elementi principali su cui intervenire per far sì che i comportamenti e gli ambienti dove vengono erogate le prestazioni di cura e di assistenza siano il più possibile idonei sia per gli utenti che per gli operatori a garanzia della loro sicurezza.
L’aggressore, secondo ricerche svolte (McPhaul e Lipscomb, 2004; Duncan e al., 2000; Lin e Liu, 2005), è un uomo con un basso livello socio – culturale, che presenta una storia di comportamenti violenti. In aggiunta, ha avuto un’infanzia particolarmente difficile, può avere un disturbo da uso di sostanze e presenta, sovente, una malattia psichiatrica terapeuticamente non controllata.
Abitualmente la causa che scatena i comportamenti violenti del paziente è rappresentata da un’aspettativa frustrata, come, ad esempio, dei tempi di attesa estremamente lunghi senza nessuna comunicazione relativa alla loro durata. Inoltre, incide il vissuto personale del paziente relativo alla sofferenza e alla malattia, di cui è portatore, e che lo pongono in una condizione di vulnerabilità (Valetto e Cappabianca, 2018).
A contribuire, secondo lo psichiatra forense Zanalda, sono diversi fattori: la sempre crescente pretesa, da parte delle persone, di ottenere quello che vogliono immediatamente, il rifiuto della morte e della sofferenza, il condizionamento del dr. Google ma soprattutto la sfiducia nel sistema sanitario.
“La malattia, specie se acuta, determina uno sconvolgimento emotivo oltre che nel malato anche nelle persone vicine a lui. Quando i pazienti giungono in Pronto Soccorso accompagnati dai parenti, il livello emotivo è molto elevato – spieg Zanalda – Aumenta ancora di più quando si tratta della salute dei figli o della donna in gravidanza. Basta una piccola incomprensione o un ritardo in una risposta organizzativa per determinare l’aggressione. Scatta così la rabbia delle persone, che non si sentono sufficientemente curate. O che pretendono farmaci al di fuori delle finalità terapeutiche, oppure di essere ricoverati perché in una condizione difficoltosa, senza considerare che, senza indicazioni cliniche, l’ospedale non può supplire a tutte le situazioni di difficoltà sociale”
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