Già in passato, ripetutamente, ma quasi in solitudine, abbiamo denunciato l’estrema gravità del progetto attraverso il quale si riducono in polvere, in un colpo solo, i contratti collettivi, le leggi a tutela della parte più debole e la stessa funzione della magistratura. L’architettura giuridica che conduce a questo terrificante esito si regge sul combinato disposto di due articoli, il 32, che interviene sul processo del lavoro e sul ruolo del giudice; e il 33 che introduce l’"arbitrato". Per comprendere di cosa effettivamente si tratti, occorre rammentare che la famigerata legge 30 aveva previsto la possibilità che, nell’attivare un rapporto di lavoro, le due parti interessate potessero "certificare", in accordo fra loro e secondo una prassi definita, condizioni in tutto o in parte derogatorie rispetto ai contratti collettivi e alla legislazione vigente. E’ evidente a chiunque come la stipula di simili accordi non possa che essere frutto di un ricatto. Poiché solo il bisogno estremo di lavorare può indurre una persona in possesso delle proprie facoltà intellettive ad accettare clausole jugulatorie, peggiorative delle condizioni normative o retributive della sua prestazione, rinunzie alle quali mai, ragionevolmente, si piegherebbe se non coartata da uno stato di necessità. La norma serve dunque a conferire forza legale, legittimità formale alla legge del più forte, rovesciando un punto fermo del giuslavorismo italiano, in base al quale il soggetto più debole, il lavoratore, non deve essere posto nelle condizioni di soccombere in ragione della propria stessa debolezza. Per questo la legge aveva sin qui previsto che vi fossero "diritti indisponibili", vale a dire irrinunciabili, persino da parte di coloro che ne sono i beneficiari. Per completare il misfatto e rendere inoperante questo sano e democratico principio, occorreva tuttavia introdurre un altro, decisivo tassello. Occorreva impedire al giudice di intervenire ex post , di fronte ad una contestazione promossa dal lavoratore quando questi, perché più libero di disporre di sé, o perché licenziatosi, avesse inteso ottenere, sia pure tardivamente, giustizia.
Ecco allora la nuova norma che chiude il cerchio, il catenaccio che vanifica ogni intento riparatorio: «Nella qualificazione del contratto di lavoro e nell’interpretazione delle relative clausole, il giudice non può discostarsi dalle valutazioni delle parti, espresse in sede di certificazione dei contratti di lavoro (…) salvo il caso di erronea qualificazione del contratto, di vizi del consenso o di difformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione». Prosa ripetitiva e stucchevole, ma dal significato inequivocabil