Jobs Act, dalla Consulta un segnale importante
La Corte costituzionale ha depositato le motivazioni della sentenza che boccia il sistema di risarcimento in caso di licenziamento illegittimo. Scacchetti (Cgil): adesso è fondamentale ripristinare l’articolo 18
“Una decisione positiva, quella della Corte costituzionale, un segnale importante per la tutela dei lavoratori”. Così la segretaria confederale della Cgil Tania Scacchetti commenta la sentenza n. 194/2018 con cui la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo il sistema rigido di risarcimento del danno stabilito dal Jobs Act, e non modificato dal decreto dignità, in caso di licenziamento illegittimo sia per violazione di importanti principi costituzionali, sia per contrasto con l’articolo 24 della Carta sociale europea.
“La sentenza depositata oggi – sottolinea Scacchetti – oltre a riconoscere la fondatezza delle nostre prospettazioni in giudizio di fronte alla Corte, segna uno snodo fondamentale nella nostra battaglia per il raggiungimento degli obiettivi tracciati nella ‘Carta dei diritti universali del lavoro’”.
La sentenza della Corte
È incostituzionale il criterio di determinazione dell’indennità spettante al lavoratore ingiustamente licenziato – ancorato solo all’anzianità di servizio – previsto dal decreto legislativo n. 23/2015 e confermato dal cosiddetto “decreto dignità” del 2018. Il meccanismo di quantificazione – un “importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio” – rende infatti l’indennità “rigida” e “uniforme” per tutti i lavoratori con la stessa anzianità, così da farle assumere i connotati di una liquidazione “forfetizzata e standardizzata” del danno derivante al lavoratore dall’ingiustificata estromissione dal posto di lavoro a tempo indeterminato. Pertanto, il giudice, nell’esercitare la propria discrezionalità nel rispetto dei limiti, minimo (4, ora 6 mensilità) e massimo (24, ora 36 mensilità), dell’intervallo in cui va quantificata l’indennità, dovrà tener conto non solo dell’anzianità di servizio – criterio che ispira il disegno riformatore del 2015 – ma anche degli altri criteri “desumibili in chiave sistematica dall’evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’attività economica, comportamento e condizioni delle parti)”.
È quanto si legge nella sentenza n. 194 depositata oggi (relatrice Silvana Sciarra) con cui la Corte ha dichiarato incostituzionale l’articolo 3, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015 – che in attuazione della legge delega n. 183/2014 (cosiddetto Jobs Act) ha disciplinato il “contratto a tutele crescenti” – sia nel testo originario sia in quello modificato dal decreto legge n. 87/2018 (il cosiddetto “decreto dignità”), che si è limitato a innalzare la misura minima e massima dell’indennità.
L’articolo 3 contrasta anche con il principio di ragionevolezza, sotto il profilo dell’inidoneità dell’indennità a costituire un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito dal lavoratore a causa del licenziamento illegittimo e un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare illegittimamente.
La rigida dipendenza dell’aumento dell’indennità dalla sola crescita dell’anzianità di servizio mostra la sua incongruenza soprattutto nei casi di anzianità di servizio non elevata, come nel giudizio principale. In tali casi, appare ancor più inadeguato il ristoro del pregiudizio causato dal licenziamento illegittimo, senza che a ciò possa sempre ovviare la previsione della misura minima dell’indennità di 4 (e, ora, di 6) mensilità. Pertanto, l’articolo 3, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015 non realizza un equilibrato componimento degli interessi in gioco: la libertà di organizzazione dell’impresa da un lato e la tutela del lavoratore ingiustamente licenziato dall’altro.
Dall’irragionevolezza dell’articolo 3, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015 discende anche il vulnus recato agli articoli 4, primo comma, e 35, primo comma, della Costituzione. La Corte afferma: “Il forte coinvolgimento della persona umana (…) qualifica il diritto al lavoro come diritto fondamentale, cui il legislatore deve guardare per apprestare specifiche tutele”.
La disposizione censurata viola, infine, gli articoli 76 e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’articolo 24 della Carta sociale europea, secondo cui, per assicurare l’effettivo esercizio del diritto a una tutela in caso di licenziamento, le parti contraenti si impegnano a riconoscere “il diritto dei lavoratori, licenziati senza un valido motivo, a un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione”.
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