Nel Belpaese si fa soprattutto innovazione di processo: si trovano mille versioni (formulazioni, arricchimenti, dosaggi, eccetera) di una molecola che cura, messa a punto altrove
DI DANIELA MINERVA – 11 marzo 2015 – L’ESPRESSO
Le dimensioni della ricerca farmaceutica sono impressionanti: 141 miliardi spesi l’anno passato dalle industrie che hanno, comunque, incassato circa 750 miliardi. Ovvio che nessuna delle mini-pharma italiane ha la potenza di tiro per competere. Il ritratto del comparto tracciato in queste pagine racconta crescita e successi di un’industria che produce alla grande farmaci spesso pensati e studiati altrove. Quanto questo impatterà sul futuro del suddetto comparto è da vedere. Ma è una certezza che noi siamo e restiamo un Paese di straordinari copiatori.
D’altra parte questa è la nostra storia, con poche eccezioni. Dalla metà dell’Ottocento quando a innovare erano le industrie chimiche tedesche, al primo Novecento della penicillina inglese. Su su fino alle sciagurate leggi degli anni Ottanta, quando, coi metodi rivelati da Sanitopoli, gli industriali convinsero i politici ad allungare la durata del brevetto e assicurare loro profitti da capogiro, col Ssn che strapagava farmaci scoperti all’estero ma venduti in Italia dalle imprese italiane. Fattacci del passato a parte, quel che conta è che nel corso dei decenni la nostra capacità produttiva si è affinata.
E se qualche brillante scienziato ne scopre una che ha una potenzialità terapeutica seria, si affretta a venderla a una Big Pharma: troppo complessi e costosi i procedimenti per verificare il prodotto e piazzarlo nel cuore dei dottori di mezzo mondo. Il Made in Italy si ferma lì. Così, siamo scivolati in fondo. E non ci sono italiane nella top delle imprese che curano il mondo: americane, svizzere, francesi, giapponesi, tedesche e persino israeliane.
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