Farmaci che costano miliardi. Le Big Pharma rispondono: “Senza profitti non c’è ricerca”

Come vengono decisi i prezzi delle cure? Perché sempre più le terapie innovative risultano spesso insostenibili per molti servizi pubblici? E cosa giustifica i ritardi nel rispondere ai malati, una volta che le speranze esistono? Parla Pieluigi Antonelli

DI DANIELA MINERVA – 02 marzo 2015 – L’ESPRESSO

E poi ci sono loro. Big Pharma, seduta sulla sua montagna di brevetti, col coltello dalla parte del manico. Loro hanno i farmaci, noi i malati. In mezzo, le autorità regolatorie (l’Aifa in Italia, e l’Ema in Europa) che decidono se ammettere una medicina sul mercato e trattano con le industrie il prezzo. Che, però, resta inesorabilmente alto. A volte troppo perché i pazienti possano beneficiarne. Sono loro, gli industriali delle multinazionali, con sedi lontane e sorde, a dettare le regole. Con che criteri ce lo spiega Pierluigi Antonelli, amministratore delegato di Msd in Italia e presidente del gruppo delle industrie americane nel nostro paese (Iapg).

Presidente, l’opinione pubblica vi giudica. Apparite come quelli che tengono i prezzi troppo alti. Vi sentite sotto accusa?
«Io non mi sento sotto attacco. Da sempre la politica dei prezzi tiene conto sia della gravità della patologia sia dei costi che possono essere evitati usando farmaci specifici. Nel caso dell’epatite C stiamo parlando di farmaci che evitano il trapianto di fegato 
e molti costi per la collettività».

Eppure, noi paghiamo Sovandi 37 mila euro, gli egiziani 660. Viene da pensare che gonfiate i prezzi alle nostre latitudini.
«Direi il contrario. Li calibriamo a seconda della sostenibilità dei diversi sistemi sanitari. E facciamo bene, perché siamo responsabili. Msd quasi 15 anni fa ha annunciato il tagli dei prezzi degli anti-Hiv sulla base dell’indice dello sviluppo umano fissato dall’Onu. Quindi in 62 paesi molto poveri sono venduti senza alcun profitto; e dove c’è un indice di sviluppo medio, a prezzo molto ridotto. I paesi sviluppati, invece, pagano prezzi di mercato perché l’industria investe miliardi nella ricerca e sviluppo. Noi esistiamo in quanto riiusciamo ad avere dei rendimenti tali che 
gli azionisti continuano a investire su di noi. Trovare un farmaco costa in media 2,6 miliardi di dollari. Sperimentazioni lunghe 
e complesse, patologie estremamente complicate per le quali trovare un farmaco che dia una risposta accettabile richiede studi e investimenti più lunghi; e molte molecole che non arrivano sul mercato».

Ma questo modo di trovare medicine è una strada sostenibile? Non è sfasata rispetto ai bisogni reali? Spesso arrivano farmaci costosissimi che portano benefici limitati.
«È vero, e per questo le agenzie regolatorie devono stabilire quali sono i farmaci che apportano un reale benficio al paziente e rimborsare solo quelli. Esistono prodotti il cui valore è un mese in più di sopravvivenza. Io credo che non ci possiamo più permettere di registrare terapie che hanno un impatto così marginale. Ma poi accadono cose strane».

Ovvero?
«Prendiamo il caso del nostro farmaco contro l’epatiteC: Victrelis venduto a 10 mila euro a trattamento. Per alcuni tipi di malattia ha tassi di efficacia 
del 90 per cento. Ma oggi non viene più prescritto. Costa meno di un terzo del farmaco Gilead ma non viene più prescritto. 
È vero che il trattamento col Victrelis è più lungo: 24-36 settimane rispetto a 12. Ma faccio fatica a capire perché si preferisca lasciare i pazienti che ne beneficerebbero senza alcuna terapia in attesa del nuovo prodotto. Un’attesa infinita».

Resta il tema del ritardo col quale i nuovi farmaci arrivano nel nostro paese. Dovuto alla lunghezza delle trattative tra aziende e Aifa. Non avrebbe più senso avere un unico prezzo stabilito a livello europeo?
«È un falso problema. La grande maggioranza dei paesi dell’Unione fissa il proprio prezzo sulla base di un paniere nel quale convergono i costi degli altri. E ciò sta portando a una progressiva convergenza di prezzi. E tuttavia, come confermato da un recente rapporto Ocse, economisti e politici concordano sul fatto che la differenza di prezzo è una win win situation. Perché nei paesi più ricchi le aziende possono recuperare i profitti necessari, mentre in quelli più in difficoltà possono abbassare un po’ il costo di modo che i cittadini riescano ad avere comunque 
il prodotto. In Italia, ad esempio, il prezzo è in media più basso del 15 per cento nella Ue».

È più basso, ma aspettiamo molto più a lungo. Rischiamo di non avere i farmaci?
«No: i farmaci ci sono e ci saranno se le condizioni saranno minimamente accettabili. Il problema è lo shift: nel 2007 le multinazionali portavano più dei due terzi 
dei loro investimenti in Europa e negli Usa, saranno non più della metà nel 2017. E andranno nelle economie emergenti. 
Ma noi lottiamo per continuare ad avere gli investimenti in Italia. E per questo abbiamo bisogno di certezza delle regole. L’incertezza è la variabile che pesa maggiormente sulle decisioni dei Ceo; e l’incertezza è l’elemento distintivo dell’Italia. Così come lo sono la complicatezza delle regole, le dicotomia tra governo centrale e autonomie locali. Dobbiamo diventare più attraenti di quanto non siano gli altri paesi. E questo è il nostro terreno di scontro quotidiano».

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