La Corte di Cassazione, con sentenza n. 17108/2016, si è pronunciata sul tema riguardante l’utilizzo a fini privati del cellulare aziendale assegnato esclusivamente per lavoro. A tale riguardo, la Suprema Corte ha evidenziato che l’onere di provare l’abuso del telefonino grava interamente sul datore di lavoro. Ciò in applicazione dell’articolo 5, L. 604/1996, per cui l’onere della prova della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento spetta al datore di lavoro.
Of Cesare Michelini – 30 novembre 2016 – Euroconference lavoro
Rilevanza ai fini disciplinari dell’abuso del telefono cellulare aziendale
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Nell’ipotesi in cui il cellulare sia stato assegnato solo per motivi di lavoro, non vi è dubbio che l’utilizzo reiterato del telefono per ragioni personali (es. per chiamare un amico o la fidanzata) costituisca una condotta sanzionabile disciplinarmente. Come in tutti i casi, la sanzione da applicare deve essere proporzionata alla gravità dell’inadempimento.
La Corte di Cassazione è più volte intervenuta in materia, confermando che, nei casi più gravi, l’abuso del telefono cellulare giustifica anche l’adozione di una sanzione espulsiva.
In particolare, è stato ritenuto che:
- il comportamento del lavoratore che utilizza il telefono aziendale per comunicazioni personali in misura smodata, costante e reiterata, nonostante tale condotta sia vietata non solo dal codice disciplinare, ma anche da specifici richiami del datore di lavoro, costituisce un notevole inadempimento dei suoi doveri contrattuali e legittima il licenziamento per giustificato motivo soggettivo (Cass. n. 10062/2002);
- è legittimo il licenziamento del dipendente che aveva utilizzato il telefono cellulare di servizio per telefonate di carattere privato per un importo pari a 9.000 euro effettuate nell’arco di un anno (Cass. n. 22066/2007);
- è, invece, illegittimo il licenziamento irrogato a un lavoratore che, utilizzando il telefono aziendale, aveva mandato numerosi messaggi di natura privata, atteso che la gravità della condotta tenuta, l’intensità dell’elemento soggettivo e l’importanza del danno non erano tali da comportare una irreversibile lesione del vincolo di fiducia anche alla luce del fatto che condotte analoghe poste in essere da altri dipendenti non erano state sanzionate con il licenziamento (Cass. n. 10550/2013).
Il tema relativo all’onere della prova circa il carattere personale delle telefonate
Come è noto, l’articolo 5, L. 604/1966, pone inderogabilmente a carico del datore di lavoro l’onere di provare la sussistenza della giusta causa or of giustificato motivo di licenziamento, nel rispetto dalla regola generale dell’articolo 2697 cod. civ.. Dunque, è il datore di lavoro a dover provare le circostanze poste a fondamento del licenziamento.
Nella tematica in esame va, tuttavia, considerato che normalmente il datore di lavoro non ha l’esatta conoscenza dei numeri di telefono chiamati dal proprio dipendente. Infatti, nei tabulati forniti dalle compagnie telefoniche, le ultime tre cifre del numero sono criptate per ragioni di privacy. A fronte di ciò, il datore di lavoro può trovare obiettive difficoltà nel verificare se le telefonate effettuate dal dipendente siano di natura lavorativa oppure privata. Pertanto, si pone il tema relativo alla possibilità (o meno) per il giudice di introdurre criteri finalizzati a rendere meno gravoso l’esercizio dell’onere della prova in capo al datore di lavoro, tra cui quello della vicinanza alla fonte di prova. In parole semplici, in applicazione del suddetto criterio, nei casi in cui sussista una difficoltà oggettiva di fornire la prova di un fatto, l’onere della prova viene (quantomeno in parte) attribuito alla parte che ha la più agevole disponibilità del mezzo di prova. Per quanto di interesse, in base al criterio di vicinanza alla fonte di prova, potrebbe ritenersi che sia il lavoratore – in quanto persona che ha effettuato la chiamata – a dover dimostrare il carattere lavorativo della medesima. Detto ciò, vi è da chiedersi se una siffatta conclusione sia compatibile con la regola generale prevista dal sopra citato articolo 5, L. 604/1966, in tema di onere della prova del licenziamento. La sentenza della Corte di Cassazione commentata ha proprio affrontato questa tematica.
La sentenza n. 17108/2016: è sempre il datore di lavoro a dover provare la natura personale delle telefonate
La vicenda riguardava il licenziamento disciplinare comminato a un informatore medico-scientifico, al quale era stato contestato di aver effettuato numerose chiamate per ragioni non di servizio. Nella lettera di contestazione disciplinare, la datrice di lavoro aveva indicato i numeri di telefono chiamati, con le ultime 3 cifre criptate, così come risultanti dal tabulato fornito dalla compagnia telefonica.
La Corte d’Appello di Firenze aveva affermato la legittimità del licenziamento, ritenendo che:
- la società, in effetti, anche per ragioni di privacy, non era in grado di identificare nella loro completezza i numeri di telefono chiamati;
- mentre tale operazione poteva certamente essere effettuata dal dipendente, avvalendosi della propria agenda o rubrica telefonica, per risalire (esaminando i numeri criptati solo nelle ultime tre cifre) ai destinatari e ai motivi delle chiamate.
La Corte di Cassazione ha cassato la sentenza della Corte d’Appello di Firenze, ritenendo che quest’ultima abbia invertito quell’onere della prova (della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento) che la legge pone inderogabilmente in capo al datore di lavoro.
La decisione della Suprema Corte si fonda sulle seguenti motivazioni:
- il criterio empirico di vicinanza alla fonte di prova deve ritenersi comunque interdetto quando – come nel caso dell’articolo 5 citato – il Legislatore stabilisca esplicitamente a priori l’onere probatorio (nel caso di specie pacificamente gravante in capo al datore di lavoro);
- peraltro, nel caso di specie il criterio di vicinanza alla prova era stato malamente applicato, poiché costituisce una mera congettura quella secondo cui tutti i numeri di telefono chiamati per lavoro o per altra ragione vengano puntualmente registrati su agenda cartacea o informatica, al punto da poter essere a posteriori agevolmente ricostruiti dal chiamante;
- l’affermazione per cui sarebbe stato troppo difficile (se non impossibile) per la società dimostrare che i soggetti chiamati dal lavoratore non erano medici da visitare non consente di comprendere in base a quali criteri la datrice di lavoro abbia potuto ritenere che le telefonate, oggetto della lettera di contestazione, fossero state effettuate per motivi personali;
- in altre parole, se la società non era a conoscenza dei destinatari, certamente non poteva sapere se le corrispondenti telefonate erano state effettuate per motivi privati o di lavoro.
La sentenza commentata ha, pertanto, applicato in modo rigoroso il principio, stabilito dell’articolo 5, L. 604/1966, per cui l’onere della prova dei motivi del licenziamento grava interamente sul datore di lavoro. Ciò non fa, tuttavia, venir meno la rilevanza delle ragioni oggettive per cui, secondo un diverso orientamento, spetta al lavoratore l’onere di indicare il numero di telefono completo e le motivazioni della chiamata.
È, infatti, oggettiva la difficoltà per il datore di lavoro di individuare, all’interno di tabulati che contengano decine e decine di numeri di telefono parzialmente criptati, l’effettivo destinatario di ciascuna chiamata, nonché di provare la ragione (privata o lavorativa) della telefonata. In considerazione di ciò pare auspicabile una modifica dell’orientamento della Suprema Corte, teso a rendere meno rigoroso l’onere della prova in capo al datore di lavoro.
Si segnala che l’articolo è tratto da “Il giurista del lavoro“.
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