La forma del lavoro che verrà
La rivoluzione digitale ha già iniziato a trasformare molte mansioni lavorative, ma è solo l’inizio: l’apprendimento automatico, cioè l’intelligenza artificiale in grado di imparare da sola, promette di sostituire gli esseri umani anche in compiti complessi e non routinari. Le ricerche per capire dove andrà il mercato del lavoro sono molte, e sottolineano opportunità e rischi per i lavoratori di tutto il mondo
di Emily Anthes/Nature
L’anno scorso, l’imprenditore Sebastian Thrun ha deciso di aumentare le sue capacità di vendita usando l’intelligenza artificiale. Thrun è il fondatore e presidente di Udacity, una società di formazione che offre corsi online e impiega un’armata di venditori per rispondere alle domande dei potenziali studenti via chat. Thrun, che dirige anche un laboratorio di informatica alla Stanford University, in California, ha lavorato con uno dei suoi studenti per raccogliere le trascrizioni di queste chat, segnalando quelle che hanno portato all’iscrizione a un corso. I due hanno inserito i dati della chat in un sistema di apprendimento automatico, che ha raccolto le risposte più efficaci a una serie di domande più comuni.
Poi hanno messo questo assistente alle vendite digitale a lavorare accanto ai colleghi umani. Quando arrivava una domanda, il programma suggeriva una risposta appropriata, che il venditore poteva personalizzare se necessario. Era come avere un copione per le vendite in grado di reagire istantaneamente, con una montagna di dati per supportare ogni suo elemento. E funzionava; il gruppo è riuscito a gestire il doppio dei contatti nello stesso tempo, e a convertirne in vendite una percentuale più alta.
In pratica, spiega Thrun, il sistema ha messo insieme le competenze dei migliori venditori della società e le ha rese disponibili all’intero gruppo, con un processo che egli ritiene potenzialmente rivoluzionario. “Proprio come la macchina a vapore e l’auto hanno amplificato la nostra potenza muscolare, questo potrebbe amplificare la nostra capacità cerebrale e trasformarci in superumani dal punto di vista intellettuale”, afferma.
Nei prossimi decenni queste tecnologie trasformeranno quasi ogni settore, dall’agricoltura alla medicina, dalla produzione alla vendita, dalla finanza ai trasporti, ridefinendo la natura del lavoro. “Milioni di posti di lavoro saranno eliminati, serviranno e saranno creati milioni di nuovi posti di lavoro, e molti di più ancora saranno trasformati”, afferma Erik Brynjolfsson, che dirige l’Initiative on the Digital Economy del Massachusetts Institute of Technology.
Ma fare previsioni precise è difficile. “La tecnologia sta progredendo, il che in qualche modo è una cosa positiva, ma siamo ancora molto in ritardo nel comprenderne le implicazioni”, spiega. “C’è un’enorme necessità, e un’enorme opportunità, di studiare i cambiamenti”. I ricercatori stanno cominciando a fare proprio questo, e i dati che stanno emergendo resistono alle semplificazioni. I progressi nelle tecnologie digitali possono cambiare il lavoro in modi complessi e sfumati, creando opportunità e rischi per i lavoratori.
Ecco tre domande pressanti sul futuro del lavoro in un mondo digitale ed ecco le risposte che i ricercatori stanno cominciando a dare.
L’apprendimento automatico scalzerà i lavoratori specializzati?
Nelle precedenti ondate di automazione, i progressi tecnologici hanno permesso alle macchine di svolgere compiti semplici, ripetitivi e di routine. L’apprendimento automatico apre la possibilità di automatizzare compiti cognitivi più complessi e non routinari. “Per la maggior parte degli ultimi 40 o 50 anni, è stato impossibile automatizzare un compito prima di averlo compreso molto bene”, dice Brynjolfsson. “Questo non è più vero: ora le macchine possono imparare da sole”.
I sistemi di apprendimento automatico possono tradurre parole, catalogare immagini, ordinare merci, individuare frodi e diagnosticare malattie, rivaleggiando con gli esseri umani in alcuni campi nuovi e sorprendenti. “Una macchina può gestire molti, molti e molti più dati di un essere umano”, dice Thrun. All’inizio di quest’anno, ha guidato un gruppo di ricerca che ha dimostrato che circa 129.000 immagini di lesioni cutanee potrebbero essere utilizzate per addestrare una macchina a diagnosticare il cancro della pelle con un livello di precisione paragonabile a quello di dermatologi qualificati.
Da allora, però, altri ricercatori hanno sostenuto che la percentuale del 47 per cento è troppo elevata, data la varietà di compiti che i lavoratori tendono a svolgere in molte occupazioni. “Se si va più in profondità, se si analizza la struttura dei compiti svolti effettivamente dalle persone, si scopre che le stime si abbassano”, afferma Ulrich Zierahn, ricercatore senior del Centre for European Economic Research.
Per esempio, lo studio di Oxford riferiva che gli impiegati in contabilità, amministrazione e revisione dei conti hanno un rischio di automazione del 98 per cento. Ma quando hanno analizzato i dati dell’indagine su ciò che quelle persone fanno effettivamente, Zierahn e colleghi hanno scoperto che il 76 per cento di loro aveva un impiego che richiedeva un lavoro di gruppo o interazioni faccia a faccia. Almeno per ora, quelle attività non possono essere facilmente automatizzate. Quando gli autori hanno esteso il loro approccio ad altre professioni, hanno trovato dati meno allarmanti sul numero di posti di lavoro a rischio nei 21 paesi studiati. Negli Stati Uniti, la quota di lavoratori ad alto rischio di automazione era solo il 9 per cento, e la cifra variava da un minimo del 6 per cento in Corea del Sud ed Estonia fino a un massimo del 12 per cento in Germania e Austria (si veda l’infografica di “Nature”).
Brynjolfsson ora sta collaborando con Tom Mitchell, un informatico della Carnegie Mellon University, per approfondire il tema dell’impatto dell’apprendimento automatico. I due hanno elaborato una categoria che descrive le caratteristiche che rendono certi compiti particolarmente idonei a questo approccio. Per esempio, i sistemi di apprendimento automatico sono abili nei compiti che comportano la traduzione di un insieme di input – per esempio, immagini di lesioni cutanee – in un insieme di output, per esempio le diagnosi di cancro. È più probabile che vengano usati anche per attività in cui sono facilmente disponibili grandi insiemi dei dati digitali necessari addestrare il sistema. Brynjolfsson e Mitchell stanno scandagliando numerose banche dati occupazionali per determinare in che misura una gamma di mansioni lavorative soddisfi questi e ad altri criteri.
Anche con questo tipo di analisi a disposizione, determinare le conseguenze per il mercato del lavoro è complesso. Il semplice fatto che un compito possa essere automatizzato non significa che lo sarà effettivamente; le nuove tecnologie spesso richiedono trasformazioni organizzative che sono impegnative in termini di denaro e di tempo. Ostacoli legali, etici e sociali possono inoltre ritardare o sviare la loro applicazione. “L’IA non è ancora un prodotto che si può trovare sul mercato”, afferma Federico Cabitza, che studia informatica per la sanità all’Università di Milano-Bicocca. Per esempio, implementare sistemi medicali di apprendimento automatico richiede sia preparazione tecnologica sia la volontà di dedicare migliaia di ore di lavoro a rendere operativi quei sistemi – afferma – per non parlare dell’accettazione da parte di operatori sanitari e pazienti.
In effetti, molte persone potrebbero trovarsi a lavorare fianco a fianco ai sistemi di IA, come i venditori di Udacity, invece di esserne sostituiti.
Per esempio, le auto a guida autonoma non sono ancora in grado di cavarsela in tutte le situazioni per conto proprio, per cui la casa automobilistica Nissan sta sviluppando una soluzione a supporto umano. Se una delle sue autovetture incontra una situazione che non capisce, come lavori stradali o incidenti, contatterà un centro di comando remoto in cui un “gestore di mobilità” umano può assumere il controllo finché la vettura non ha superato il problema. “Fondamentalmente, macchine ed esseri umani pensano in modo molto diverso tra loro, ognuno con i suoi punti di forza”, afferma Pietro Michelucci, direttore esecutivo dello Human Computation Institute di Ithaca, nello Stato di New York. “Perciò assistiamo a un vero e proprio matrimonio naturale tra macchine ed esseri umani”.
La gig economy aumenta lo sfruttamento dei lavoratori?
Flessibilità, varietà e autonomia: queste sono le promesse della gig economy, oggi in espansione, in cui i lavoratori usano piattaforme online per trovare incarichi di lavoro a breve termine [NdR: nel mondo dello spettacolo, gig indica la singola performance di un gruppo musicale o teatrale]. Questo tipo di lavoro temporaneo, a richiesta e mediato dalle comunicazioni digitali, può assumere una varietà di forme differenti, dalla guida per il servizio di taxi Uber allo svolgimento di micro-compiti – come effettuare un sondaggio, tradurre alcune frasi di testo o catalogare un’immagine – su una grande piattaforma di crowd-working as Amazon Mechanical Turk.
Queste piattaforme digitali consentono di lavorare da qualsiasi luogo, il che significa che potrebbero eliminare alcune barriere geografiche per ottenere buoni posti di lavoro. “Un cittadino di Nairobi non è più vincolato dal mercato del lavoro locale”, afferma il geografo digitale Mark Graham dell’Università di Oxford.
I loro risultati preliminari mostrano che per alcune persone questi lavori sono remunerativi. Il 68 per cento degli intervistati ha dichiarato che costituiscono una parte importante del loro reddito familiare. E le piattaforme digitali hanno garantito posti di lavoro a molte persone, come donne impegnate nella cura di bambini piccoli o persone anziane e migranti senza permesso di lavoro, che hanno dichiarato che altrimenti le loro opportunità di lavoro sarebbero state limitate. “C’è chi si mantiene con questo sistema”, dice Graham. “Ma non è così per tutti”.
In the gig economy c’è un enorme surplus di domanda di lavoro, il che spinge alcuni lavoratori a diminuire i propri compensi al di sotto della soglia che considerano equa. Inoltre, molti lavorano intensamente per molte ore di fila per rispettare le scadenze. “Tendono ad avere un’esistenza molto precaria, quindi cercano di non rifiutare i lavori che trovano”, dice Graham. “Abbiamo parlato con alcune persone che sono rimaste sveglie per 48 ore filate, lavorando duramente solo per rispettare il contratto”.
Ci sono notevoli disuguaglianza geografiche. In uno studio del 2014, Graham e colleghi hanno analizzato più di 60.000 transazioni avvenute su una delle principali piattaforme nel marzo 2013. La maggior parte degli incarichi, hanno scoperto, è stata offerta da datori di lavoro dei paesi ricchi e svolta da lavoratori di paesi a reddito medio/basso (si veda l’infografica di “Nature”).
Poblemi pratici potrebbero spiegare alcune di queste disparità. Per esempio, le differenze di lingua e di fuso orario potrebbero rendere alcuni datori di lavoro riluttanti ad usare lavoratori stranieri e la tradizione di outsourcing del lavoro verso l’India e le Filippine potrebbe aver contribuito a rendere più attraenti i lavoratori di questi paesi. Ma potrebbe giocare un ruolo anche la discriminazione, consapevole o meno. Il gruppo di Graham ha trovato offerte di lavoro che escludevano esplicitamente persone di determinati paesi. “Anche se queste tecnologie sono riuscite a collegare diverse parti del mondo, non sono state in grado di colmare queste disparità come speravamo”, afferma Mohammad Amir Anwar, un ricercatore che lavora con Graham.
Un altro grande studio etnografico sui gig workers sta iniziando a rivelare qualcosa di più su come questo lavoro viene svolto, offrendo anche alcuni indizi su ciò che serve per farcela. Tra il 2013 e il 2015, due ricercatori senior di Microsoft Research, l’antropologa Mary Gray e il sociologo informatico Siddharth Suri hanno condotto sondaggi su circa 2000 lavoratori negli Stati Uniti e in India, e interviste più lunghe con quasi 200 di loro.
Una delle prime cose che hanno scoperto è stata che sebbene i gig workers siano spesso presentati come operatori indipendenti e autonomi, molti di loro in realtà comunicano e collaborano. I lavoratori si sono aiutati l’un l’altro a creare account e profili, hanno condiviso informazioni sui datori di lavoro e sulle nuove offerte di lavoro, dandosi supporto tecnico e sociale. I lavoratori stanno facendo uno sforzo volontario per aggiungere connessioni umane al sistema, dice Suri, e lo fanno usando il loro tempo. “Quindi è che chiaro che ritengono che abbia un valore”.
Il gap di competenze digitali può essere colmato?
Per anni, gli esperti hanno lanciato l’allarme sulla carenza di competenze digitali. Hanno sottolineato che ci sono pochi lavoratori formati per coprire posti di lavoro ad alto contenuto tecnologico e che la mancanza di un’alfabetizzazione digitale di base avrebbe impedito ai lavoratori di alcune regioni geografiche o di certi gruppi demografici di prosperare nell’economia digitale. In risposta, in tutto il mondo sono nati diversi programmi innovativi per stimolare l’alfabetizzazione e le competenze digitali. La ricerca sta ora iniziando a fornire alcuni indizi su cosa funziona e cosa no, e su dove la formazione delle competenze potrebbe fallire.
Ci sono stati alcuni successi documentati. Più di un decennio fa, la Defense Advanced Research Projects Agency (DARPA) degli Stati Uniti ha iniziato a sviluppare un sistema di tutoring digitale personalizzato, interattivo e adattativo per formare nuove reclute della Marina Militare alla mansione di tecnico dei sistemi di information technology (IT). Gli studenti si confrontavano con il tutor in un rapporto uno a uno, seguendo lezioni su argomenti diversi e affrontando i problemi relativi. Il sistema privilegiava l’apprendimento concettuale e la riflessione, spingendo regolarmente gli studenti a rivedere ciò che avevano imparato. Quando il sistema di tutoraggio giudicava che uno studente avesse appreso i contenuti, passava all’argomento successivo.
In una revisione del programma del 2014, i ricercatori dell’Institute for Defense Analyses hanno scoperto che 12 reclute che avevano completato il corso di 16 settimane superavano in preparazione quelle che avevano frequentato il corso di formazione informatica convenzionale della Marina, che si svolgeva in aula e durava più del doppio del tempo. I 12 soggetti facevano addirittura meglio di un gruppo di tecnici informatici navali anziani, ciascuno dei quali aveva un’esperienza media di quasi dieci anni, secondo quasi ogni misura di valutazione. “Se possiamo farlo, perché non farlo di più?” si chiede Dexter Fletcher, co-autore della revisione. “Perché non cominciare ad applicare sul serio questo approccio alla formazione del personale?”
In uno studio di follow-up, Fletcher ha scoperto che una versione leggermente modificata del tutor digitale ha prodotto risultati simili quando è stato utilizzato per addestrare 100 veterani dell’esercito a lavori civili in ambito informatico. A sei mesi dal completamento del programma, il 97 per cento dei veterani che avevano cercato lavoro nell’IT l’aveva ottenuto, e guadagnava uno stipendio medio annuo approssimativamente uguale a quello di lavoratori con 3-5 anni di esperienza.
Ma la qualità di questi programmi può variare enormemente, e pochi sono stati valutati rigorosamente. I bootcamp di codifica possono essere costosi, richiedono un investimento di tempo significativo e si trovano principalmente in aree ad alta densità tecnologica e nei contesti urbani. E rimangono lacune nei risultati: in uno studio del 2015 su più di 67.000 studenti MOOC, due studiosi di Stanford hanno scoperto che le studentesse e gli studenti di entrambi i sessi di Africa, Asia e America Latina avevano meno probabilità di superare certe tappe dei corsi, come seguire più del 50 per cento delle lezioni, e avevano preso voti peggiori degli studenti maschi e degli studenti MOOC di Nord America, Europa e Oceania.
Anche chi porta a termine corsi per acquisire competenze digitali può trovare lo stesso una serie di ostacoli all’occupazione. Quando nel 2004 i ricercatori hanno intervistato gli studenti in un programma informatico alla Strathmore University di Nairobi,in Kenya, alcuni studenti hanno detto di essere preoccupati di conseguire una laurea in un contesto economico locale che non apprezzava le loro capacità o non aveva posti di lavoro in cui potevano metterla a frutto.
“Questo era particolarmente vero per le donne”, dice Lynette Yarger, informatica della Pennsylvania State University a University Park, che era coinvolta nella ricerca. Come ha spiegato una studentessa: “Il fatto che io sia una donna può portare i datori di lavoro a pensare che non dovrebbero darmi un posto nell’IT, quindi non potrò mai usare completamente tutto ciò che ho imparato per il lavoro che voglio fare”.
Un aspetto che la ricerca sta già chiarendo è che anche programmi di formazione ben progettati potrebbero non bastare a garantire il successo nel mondo del lavoro digitale. “Il fatto che tu abbia migliori abilità e tu sappia usare un computer non significa necessariamente che tu possa ottenere un buon lavoro”, dice Garrido. “Le abilità digitali sono un pezzo importante del puzzle, ma non sono sufficienti”.
(L’originale di questo articolo è stato pubblicato su Nature il 24 ottobre 2017. Traduzione ed editing a cura di Le Scienze. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati.)
Fonte “Le Scienze” 28 ottobre 2017
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