Le imprese farmaceutiche italiane colgono l’occasione di un convegno – tenutosi ieri a Milano – per ragionare sul loro futuro. E per voce di colui che le rappresenta, Carlo Dompè, presidente di Farmindustria, non domandano alle istituzioni «né sconti, né regali, né soluzioni ai nostri problemi, ma solo un ambiente favorevole, non ostile».
Il numero uno di Farmindustria sorride di fronte a una crescita media annua – per i 12 più importanti produttori italiani del farmaco – che tra il 2001 e il 2005 si è attestata al 7,7% (contro l’1,3% medio dell’industria italiana), ma questo non basta. «Bisogna guardare agli esempi positivi che esistono in Europa – dice Dompè -: Francia, ma anche Gran Bretagna, Germania e Irlanda».
Parigi, in particolare, ha messo in piedi più pilastri per rilanciare l’intero sistema farmaceutico nazionale. Motivo di invidia per i produttori italiani è la deduzione del 40% dell’incremento delle spese in ricerca e sviluppo e del 10% dell’intero volume; la possibilità di riduzione d’imposta fino a 16 milioni di euro; il rimborso immediato del credito d’imposta se si è una «giovane impresa innovativa». Ma le novità d’Oltralpe non finiscono qui. Nel 2008 il governo Sarkozy potrebbe portare l’aliquota del credito d’imposta per la ricerca al 30% delle spese di ricerca già impegnate, con un limite di 100 milioni di euro, e del 5% oltre questa cifra.
Tutte misure che hanno permesso alla Francia, «che pure non spende più degli altri», di produrre di più, «creando un saldo netto tutto a favore del Sistema-Paese», spiega Dompè. La vera sfida per l’Italia, dunque, non è quella di abbandonare la spesa sanitaria, («anche perché non ce lo possiamo permettere»), ma di migliorare il rapporto costi-benefici dell’intero sistema. A guardare al modello francese è anche Diana Bracco, presidente e ad dell’omonimo gruppo e presidente di Assolombarda. Un confronto che fa capire «come in Italia manchi un disegno preciso di lungo periodo». Senza contare l’assenza di dialogo tra l’industria farmaceutica e le istituzioni: «Spesso ci troviamo sulla testa provvedimenti ai quali non possiamo controbattere – dice Bracco -. Ci auguriamo che da questa finanziaria escano delle impostazioni diverse».
E se queste decisioni non andassero ad allentare la leva fiscale? «C’è il pericolo di una disastrosa involuzione, fatta di tagli, ridotta qualità occupazionale e avvitamento verso il basso», avverte l’imprenditrice. Per risollevare le sorti dell’intero settore, dunque, «non bisogna perdere un solo moment i rischi di perdita di competitività nel panorama internazionale sono numerosi e fin troppo concreti», conclude. Nonostante la mancanza di incentivi alla ricerca e una pressione fiscale che sfiora il 70% del reddito prodotto, i marchi farmaceutici italiani riescono comunque a far segnare risultati incoraggianti. Secondo i dati Ims, la crescita complessiva in ricerca e sviluppo del comparto è passata da 893,9 milioni di euro del 2000 ai 1.115 milioni del 2006: un balzo pari al 24,7 per cento. Molto di più di quanto fatto, in media, dall’industria italiana