Non c’è alcuna crisi nell’innovazione farmaceutica, si legge in un controverso item published on BMJ extension from Donald Light, professore di Social medicine and comparative health care della University of Medicine and Dentistry del New Jersey e Joel Lexchin, Professor of Health Policy and Management at York University in Toronto.
La vera crisi, sostengono gli autori, è in un sistema che premia le compagnie farmaceutiche per sviluppare nuovi prodotti che offrono soltanto un minimo, se non inesistente, beneficio terapeutico rispetto a quelli già esistenti con lo scopo di conservare un costante e stabile profit stream.
La scarsità di fondi disponibili per la ricerca non è, secondo loro, frutto della crisi, ma di precise company policies, who invest in research at a ratio of 1:19 to what they invest in marketing campaigns, la cui promozione può arrivare a rappresentare addirittura l’ 80% (!!!) della spesa farmaceutica di uno Stato.
I due scienziati sostengono, inoltre, che parlare di crisi dell’innovazione ai politici e alla stampa costituisce solo uno stratagemma mirato ad ottenere protezioni da parte dei governi per evitare la concorrenza del libero mercato. “Companies exaggerate development costs focalizzandosi su un’auto affermazione dell’aumento dei costi senza menzionare gli straordinari guadagni”, scrivono Light and Lexchin.
Per cambiare questo status quo, si legge nell’articolo, gli enti regolatori dovrebbero avoid continued approval of drugs with little therapeutic value: “I paesi europei stanno pagando miliardi in più del necessario per farmaci che forniscono pochi vantaggi per la salute, perché i prezzi non sono proporzionali al loro reale valore clinico”. Inoltre, concludono, la valutazione dei nuovi farmaci dovrebbe essere pubblica e indipendente dalle stesse industrie farmaceutiche e dovrebbe premiare l’innovazione.
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