Collegato lavoro

 

Tra le molte novità negative che si leggono nel “collegato lavoro” – ossia nella pessima legge antisociale sulla quale il centrodestra ha ritrovato, non per nulla, una transitoria unità – ne va subito segnalata, “a sirene spiegate”, una assai grave e quanto mai pericolosa per il destino di decine e centinaia di migliaia di lavoratori precari, e per la quale occorre subito organizzare un rimedio.

E’ infatti una questione da cui può derivare ai precari un grande male, ma che può anche – e questo è l’aspetto singolare – rovesciarsi nel suo contrario, in un grande fatto positivo, ossia nel sospirato ottenimento di un posto di lavoro stabile, se sindacati, partiti progressisti, associazioni democratiche e, ovviamente, gli stessi lavoratori sapranno esser capaci di un adeguato sforzo sia informativo che organizzativo.

Ecco di cosa si tratta. Fino ad ora, ossia fino all’entrata in vigore del “collegato lavoro”, era possibile impugnare in giudizio i contratti di lavoro precario di qualsiasi tipo (a termine, di lavoro somministrato o interinale, di lavoro “a progetto” ecc.), che presentassero illegittimità formali e sostanziali e chiederne la trasformazione in contratti di lavoro a tempo indeterminato, in qualsiasi tempo successivo alla data di scadenza del contratto stesso, senza pericolo di incorrere nella “tagliola” del termine di decadenza di 60 giorni previsto, fin dalla legge n. 604/1966, per la impugnazione di un normale licenziamento da un normale contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

In altre parole, il lavoratore licenziato da un contratto di questo tipo doveva e deve “farsi vivo” con una lettera raccomandata di impugnazione entro 60 giorni dal licenziamento: se spediva questa lettera poi aveva cinque anni per iniziare la controversia giudiziaria, ma se non la spediva il suo licenziamento, anche se illegittimo, diventava inoppugnabile e irrimediabile. Invece, il lavoratore precario che fosse stato estromesso dal posto di lavoro per scadenza del termine previsto nel contratto di lavoro precario poteva far valere la eventuale illegittimità e ottenere la trasformazione in contratto di lavoro a tempo indeterminato anche dopo molti mesi e persino anni dalla sua estromissione dal posto di lavoro.

Era giusta questa differenza e come si spiegava dal punto di vista tecnico-giuridico? Certamente era giusta, perché rifletteva la diversità di atteggiamento psicologico tra i due lavoratori: quello titolare di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato che viene licenziato prende subito atto della circostanza che, seppur ingiustamente, la ditta non vuole avere più nulla a che fare con lui, che lo scaccia per sempre e quindi 60 giorni sono sufficienti per decidere se entrare o meno in controversia. Il lavoratore precario il quale invece viene “lasciato a casa” per il fatto “obiettivo” della scadenza del contratto, senza che gli venga fatto addebito alcuno, spera sempre che la ditta lo richiami con ulteriori contratti precari, e che prima o poi lo stabilizzi: per questo è molto restio ad impugnare il contratto precario appena scaduto, anche se sospetta che sia illegittimo, perché non ha, ovviamente, la certezza del risultato giudiziale e teme, intanto, di guastarsi con quel datore di lavoro, perdendo ogni speranza di richiamo. Solo dopo molto tempo, a mesi o anni di distanza, quando ogni speranza sarà svanita, si deciderà liberamente alla controversia.

Dal punto di vista tecnico-giuridico la differenza si spiega perché il licenziamento è un atto di volontà del datore di lavoro, che scioglie un rapporto contrattuale esistente, e quindi va impugnato nei 60 giorni, mentre la comunicazione che “lascia a casa” il lavoratore