Le case farmaceutiche, per vari motivi economici (costi di ricerca, ritorno limitato dal medicamento) sono restie a investire negli antibiotici. Una possibile soluzione è convincerle a tornare a produrne tramite incentivi statali, un allungamento dei brevetti sui farmaci o cambiamenti nei test clinici. Nel 1943 il Nobel Fleming profetizzò che l’uomo avrebbe reso i propri microbi resistenti alla medicina – Ora ci siamo (quasi), ed è l’allarme sanitario del secolo. Siamo infatti a un passo dal primo microbo resistente a ogni antibiotico esistente.
26.08.2015 – Federico Storni – CORRIERE DEL TICINO
Sir Alexander Fleming, l’uomo che scoprì la penicillina nel 1928, nell’accettare il Nobel per la medicina nel 1943 disse: «Non è difficile rendere i microbi resistenti alla penicillina in laboratorio, se li si espongono a concentrazioni non sufficienti a ucciderli… C’è il rischio che l’uomo ignorante possa facilmente sottodosare se stesso e rendere i propri microbi resistenti alla medicina, esponendoli a quantità non letali della sostanza».
Difatti, dagli anni ’60 a oggi, nessuna nuova classe d’antibiotici ha resistito più di due anni alla comparsa di resistenze. Oltre sessant’anni fa, quindi, il mondo scientifico era già cosciente di un fenomeno ora così preoccupante che Sally Davies, la massima autorità in materia di salute in Inghilterra, l’ha definito pericoloso quanto il terrorismo: un mondo post-antibiotici, in cui questi non funzionano più e la medicina tornerà quella precedente l’invenzione della penicillina. Ma è un allarme giustificato?
In parte, nel mondo post-antibiotici, ci siamo già. L’economista britannico Jim O’Neill, in un’analisi commissionata dal Governo inglese, ha stimato in modo prudenziale le morti annue per resistenza in 700.000 unità (25.000 in Europa, 23.000 in America). Se la situazione non cambierà, O’Neill prevede che i morti annui nel 2050 saranno 10 milioni (più di quanti ne uccida oggi il cancro), di cui 390.000 in Europa e 317.000 in Nordamerica, per un tasso di 5 decessi ogni 10.000 abitanti. E nel resto del mondo la percentuale sarà anche peggiore.
Nell’edizione 2015 dell’annuale Registro dei rischi naturali e delle emergenze civili del gabinetto inglese è stato predetto che da qui ai prossimi vent’anni una singola epidemia di microbi resistenti agli antibiotici potrebbe portare alla morte 80.000 britannici su 200.000 contagiati. Potenzialmente graffiarsi in un roseto potrebbe essere fatale, se la ferita venisse a contatto con il batterio sbagliato.
Se davvero gli antibiotici diverranno inefficaci su larga scala, si scatenerà un vortice di causa effetto che obbligherebbe a ripensare interamente la pratica medica. Si dovrebbero reinventare gli strumenti per curare influenza, tubercolosi, polmonite, HIV, e malaria, per citarne alcune. La chemioterapia diverrebbe pericolosa quanto il cancro che vuol curare, così come la dialisi e le operazioni: da quelle a cuore aperto, alla biopsia alla prostata, passando per il parto cesareo e i trapianti.
Siamo infatti a un passo dal primo microbo resistente a ogni antibiotico esistente: i cosiddetti batteri CRE sono già molto difficili da trattare e relativamente capaci di trasmettersi da uomo a uomo, con il risultato che si stima possano uccidere un paziente infetto su due, e le case farmaceutiche, per vari motivi economici (costi di ricerca, ritorno limitato dal medicamento) sono restie a investire negli antibiotici. Una possibile soluzione è convincerle a tornare a produrne tramite incentivi statali, un allungamento dei brevetti sui farmaci o cambiamenti nei test clinici.
Questa soluzione è già a medio termine dati i lunghi tempi di commercializzazione dei farmaci, eppure è piuttosto urgente. O’Neill ha stimato che serviranno investimenti pubblici e privati per 37 miliardi di dollari nei prossimi 10 anni per evitare 300 milioni di morti dovuti dalla carenza di antibiotici, da devolvere soprattutto alle università e a piccole compagnie biotech per le ricerche di base. Secondo O’Neill «la somma è comunque modesta se confrontata con il costo economico del problema», che ha stimato nell’ordine di una contrazione dell’1,4-1,6% del Pil mondiale nel 2050, pari a 300 bilioni di dollari.
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