«La promozione del benessere sul posto di lavoro è rilevante anche economicamente, chi sta bene lavora meglio e produce di più»: quello che la Società italiana di medicina del lavoro e igiene industriale (Simlii) sostiene da sempre viene ora confermato anche dall’Organizzazione mondiale della sanità. Nel suo ultimo report, l’Oms calcola che i problemi di salute legati al lavoro sono responsabili di una perdita economica pari al 4-6% del Pil in molti Paesi e che iniziative mirate possono aiutare a ridurre del 27% le assenze da malattia e del 26% i costi di assistenza sanitaria per le aziende.
«Queste percentuali vanno prese con un po’ di attenzione – commenta il presidente Simlii Pietro Apostoli – perché organismi planetari come l’Oms devono mediare situazioni molto differenziate, ma si tratta indubbiamente di un fenomeno reale. Inoltre in molti Paesi, Italia inclusa, si stanno affermando come problema principale le patologie da non lavoro: la difficoltà di trovare un’occupazione sta provocando disagio sociale e una maggior incidenza, misurabile, di malattie, anche di un certo rilievo».
Per chi un lavoro ce l’ha, riferisce l’Oms, le peggiori condizioni si associano a un aumento di patologie cardiovascolari e depressione causate dallo stress, con assenze e malattie a lungo termine. «Bisogna evitare l’errore – ammonisce Apostoli – di ridurre il fenomeno a una questione individuale, come se fosse solo un’incapacità di adattamento o reazione del singolo, dobbiamo invece aggredire le cause primarie, che riguardano le modalità con cui è organizzato, o disorganizzato, il lavoro».
Chi non è sensibile alle questioni di giustizia sociale, dovrebbe comunque riflettere sulle conseguenze economiche della mancata prevenzione: «non prevenire costa – dice Apostoli – e dovremmo avere l’accortezza di non limitarci alla valutazione dei costi medici diretti, pur molto rilevanti. Quando le cattive condizioni di lavoro producono un malato o un invalido, il danno non colpisce tanto l’azienda quanto la comunità che deve prenderlo in carico oltre che, ovviamente, l’individuo stesso».
Renato Torlaschi