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Se il lavoro porta al suicidio

N.d.R.: Riportiamo l’indagine francese che può essere trasferita all’Italia ed in particolare a quegli ISF sottoposti quotidianamente a pressioni psicologiche insopportabili, sfruttamento e umiliazioni esacerbate da contratti illegali di finte partite IVA dove lo stress e la paura di perdere anche quel lavoro sottopagato possono annientare anche le personalità più forti. La legge dice che il datore di lavoro è responsabile della salute mentale e sociale dei propri dipendenti


Francia, se il lavoro porta al suicidio

I risultati di un’indagine pubblicata nel Bollettino epidemiologico della sanità pubblica transalpina. Il fattore più importante è la paura di perdere l’impiego, seguito da minacce verbali, umiliazioni e intimidazioni

rassegna.it – 23 maggio 2019

Nel 2017, in Francia, il 3,8 per cento delle persone che lavorano ha dichiarato di aver pensato di togliersi la vita nel corso dei 12 mesi precedenti. Lo rivelano i risultati di un’indagine pubblicata nel Bollettino epidemiologico della sanità pubblica francese, che consente di misurare l’impatto delle condizioni di lavoro sull’intenzione di suicidarsi, dichiarata dal 4,5 per cento delle donne e dal 3,1 degli uomini intervistati nello studio. In più di un terzo di questi casi le condizioni in cui si lavora sono indicate quali motivo che porta al pensiero di privarsi della vita. Il fattore più importante è la paura di perdere l’impiego, seguito dalle minacce verbali, le umiliazioni e le intimidazioni sul lavoro.

Questi dati sono stati raccolti tramite intervista a più di 14 mila persone tra i 18 e i 75 anni d’età. Gli intenti suicidi sono più frequenti tra i lavoratori autonomi (4,32%) che tra i dipendenti (2,85%). Fra le donne, le operaie sono più numerose (5,13 %) delle impiegate (4,84%), mentre la percentuale scende a 3,91 per quelle con qualifica di quadro. Circa gli uomini, la percentuale più elevata comprende gli artigiani, i commercianti e i dirigenti d’impresa (3,6%), seguiti dagli agricoltori (3,49%) e dagli operai (3,01%). La frequenza più bassa appartiene ai quadri (2,62%). Dal punto di vista di settore, l’alberghiero e la ristorazione sono in testa, con il 6,8%, seguiti dalle professioni artistiche e dello spettacolo, dall’insegnamento, dalla sanità e dall’assistenza sociale. La correlazione con la posizione sociale appare in modo evidente: i lavoratori dipendenti che guadagnano meno di 1.500 euro al mese sono esposti a intenzioni suicide quasi due volte di più di coloro che hanno un reddito maggiore.

Dai fatti di cronaca si apprende che le intenzioni di suicidio si risolvono talvolta in atti concreti. Il 22 aprile scorso il quotidiano Le Mondepubblicava in prima pagina un articolo sull’emergenza dei suicidi nella polizia, ove si sono contati 28 casi dall’inizio dell’anno. Questi dati indicano un aggravamento considerevole della situazione. Secondo il ricercatore Sébastien Roché, del Centro nazionale della ricerca scientifica, le autorità non conducono indagini sistematiche sulle cause del fenomeno, perché “non c’è alcuna volontà di comprendere”, ha affermato. Un’ipotesi può essere la crescita delle tensioni sociali, il faccia a faccia con la popolazione da parte della polizia e il suo ruolo nella repressione del movimento dei gilet gialli.

Da parte sua, lo scorso aprile, l’Unione sindacale Solidaires ha lanciato una campagna con l’obiettivo di disegnare una mappa geografica dei suicidi causati dal lavoro, costruita attraverso le denunce degli attivisti e dei lavoratori (https://vimeo.com/330227580).


Il datore di lavoro è responsabile della salute mentale e sociale dei propri dipendenti

Il datore di lavoro è responsabile della salute mentale e sociale dei propri dipendenti e deve adeguare la propria competenza, accrescendo le proprie conoscenze in materia, alla luce del nuovo “bene giudico da proteggere”.

Il DLgs 9 aprile 2008, n. 81, all’Art. 2, c. 1, lett. b) : “datore di lavoro”:

  • il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l’assetto dell’organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell’organizzazione stessa o dell’unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa…; e tra le novità, quella di una specifica definizione di “salute” (art. 2, c. 1, lett. o), al quale, il datore di lavoro dovrà prestare interesse particolare poiché, essa è d’ora in poi da intendere come uno “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in un’assenza di malattia o d’infermità”.

Stress e malattie da lavoro, Apostoli (Simlii): prevenire e risalire alle cause

 «La promozione del benessere sul posto di lavoro è rilevante anche economicamente, chi sta bene lavora meglio e produce di più»: quello che la Società italiana di medicina del lavoro e igiene industriale (Simlii) sostiene da sempre viene ora confermato anche dall’Organizzazione mondiale della sanità. Nel suo ultimo report, l’Oms calcola che i problemi di salute legati al lavoro sono responsabili di una perdita economica pari al 4-6% del Pil in molti Paesi e che iniziative mirate possono aiutare a ridurre del 27% le assenze da malattia e del 26% i costi di assistenza sanitaria per le aziende.

«Queste percentuali vanno prese con un po’ di attenzione – commenta il presidente Simlii Pietro Apostoli – perché organismi planetari come l’Oms devono mediare situazioni molto differenziate, ma si tratta indubbiamente di un fenomeno reale. Inoltre in molti Paesi, Italia inclusa, si stanno affermando come problema principale le patologie da non lavoro: la difficoltà di trovare un’occupazione sta provocando disagio sociale e una maggior incidenza, misurabile, di malattie, anche di un certo rilievo».

Per chi un lavoro ce l’ha, riferisce l’Oms, le peggiori condizioni si associano a un aumento di patologie cardiovascolari e depressione causate dallo stress, con assenze e malattie a lungo termine. «Bisogna evitare l’errore – ammonisce Apostoli – di ridurre il fenomeno a una questione individuale, come se fosse solo un’incapacità di adattamento o reazione del singolo, dobbiamo invece aggredire le cause primarie, che riguardano le modalità con cui è organizzato, o disorganizzato, il lavoro».

Chi non è sensibile alle questioni di giustizia sociale, dovrebbe comunque riflettere sulle conseguenze economiche della mancata prevenzione: «non prevenire costa – dice Apostoli – e dovremmo avere l’accortezza di non limitarci alla valutazione dei costi medici diretti, pur molto rilevanti. Quando le cattive condizioni di lavoro producono un malato o un invalido, il danno non colpisce tanto l’azienda quanto la comunità che deve prenderlo in carico oltre che, ovviamente, l’individuo stesso».

Renato Torlaschi

Fedaiisf

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Redazione Fedaisf

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