I governi hanno sfruttato l’opportunità di tagliare i servizi. Come Naomi Klein ha descritto in molte differenti situazioni, quelli che si oppongono al welfare state non sprecano mai una buona crisi
di Gavino Maciocco Università di Firenze – 05/08/2014 – Rassegna.it
L’accorato appello sottoscritto da 400 eminenti personalità del mondo accademico e scientifico, rivolto alla Camera dei Lord, pubblicato sul quotidiano londinese The Daily Telegraph e ripreso da Lancet, non è riuscito a bloccare il cammino della proposta di riforma sanitaria, diventata legge il 27 marzo 2012 e entrata in vigore dal 1° aprile 2013. Con questa riforma, voluta dal governo guidato dal premier conservatore Cameron, è cambiato radicalmente il volto del National health service (Nhs). Sono stati aboliti i Primary care trusts (equivalenti alle nostre Asl), sostituiti da consorzi di General practitioners (Gps, i medici di famiglia), denominati Clinical commissioning groups (Ccgs).
I Ccgs rappresentano il vero perno del sistema: 211 in tutta l’Inghilterra, sono i destinatari di 65 miliardi di sterline di fondi pubblici (quasi il 70 per cento dei 95 miliardi di sterline dell’intero budget sanitario nazionale). Ai Ccgs viene affidata non solo la gestione delle cure primarie, ma anche la committenza, l’acquisto in regime di mercato, delle prestazioni specialistiche e ospedaliere. Il fatto che siano i Gps a scegliere e a remunerare i provider ha sollevato la questione del loro potenziale conflitto di interessi: Gps prescrittori di prestazioni erogate da provider privati, con possibili interessi in comune con gli stessi Gps.
Altro elemento critico è la perdita della dimensione nazionale di definizione dei Livelli essenziali di assistenza, assegnato prima della riforma al ministero della Salute, che stabiliva le prestazioni che le strutture pubbliche erano tenute a garantire uniformemente in tutto il territorio e anche i livelli di partecipazione alla spesa, per alcune limitate categorie di prestazioni. Con la riforma sarà ciascuno dei Ccgs a stabilire quali prestazioni saranno garantite ai pazienti e anche i livelli di partecipazione alla spesa.
Fin qui la situazione del Regno Unito. Vediamo adesso quello dellaSpagna. Il paese iberico ha adottato un modello universalistico molto simile al nostro nel 1986, con la Ley general de sanidad(Istituzione del servizio sanitario nazionale). Una delle caratteristiche fondamentali del sistema sanitario spagnolo – e in generale dell’amministrazione pubblica – è il suo decentramento. Le 17 Regioni godono di una grande autonomia rispetto al governo centrale. La stessa riforma sanitaria dell’86 è stata applicata gradualmente nelle varie realtà regionali. Prima sono partite la Catalogna e l’Andalusia, poi Paesi Baschi e Valencia e, solo nel 2002, la riforma è entrata in vigore in tutta la Spagna.
La ricetta per far fronte alla crisi ha coinvolto pesantemente proprio il settore sanitario. Con un Decreto reale approvato nell’aprile 2012 sono state adottate una serie di misure per ridurre la spesa sanitaria di 7 miliardi di euro: dall’aumento dei ticket (imposti anche ai pensionati, che fino ad allora erano rimasti esenti) a un considerevole taglio degli stipendi del personale sanitario (quasi il 20 per cento). Lo stesso valore simbolico del sistema universalistico è stato messo in discussione, mediante il passaggio a un sistema assicurativo basato sull’impiego (come quello esistente al tempo di Franco) e con il Decreto reale che stabilisce addirittura che gli utenti del Servizio sanitario siano denominati non più “cittadini”.
Ha scritto Martin McKee sul British Medical Journal, riferendosi alle riforme del governo Cameron (ma lo stesso ragionamento vale per quello che è successo in Spagna e potrebbe succedere anche in Italia): “La crisi economica ha offerto al governo l’opportunità che capita una sola volta nella vita. Come Naomi Klein ha descritto in molte differenti situazioni, quelli che si oppongono al welfare state non sprecano mai una buona crisi”.