La vexata quaestio dello sconfezionamento di medicinali prodotti industrialmente, come fonte di materia prima o per la realizzazione di forme farmaceutiche a dosaggi non presenti sul mercato è una scottante problematica che si fa strada da alcuni anni. Capita talvolta di avere bisogno di un quantitativo di materia prima, ad esempio 50 grammi di acido acetilsalicilico, e sentirsi rispondere dal fornitore abituale che è disponibile solo la confezione da un chilo. Fino a qualche tempo fa invece ci si vedeva recapitare un sacchetto od un barattolo, in qualche caso addirittura privo di sigillo, e riportante l’etichetta del grossista, contenente i 50 g richiesti.
Dunque quella del “riconfezionamento” deve essere una pratica attuata solo per necessità di dosaggio, non per mero interesse economico, eppure ci sono industrie europee che hanno fatto di questa pratica e del relativo mercato di importazione parallelo una fonte di redditizio guadagno.
Io industria farmaceutica compro la materia ad un grado di purezza 1x, la riconfeziono e la vendo ad un grado di purezza maggiore, cioè certificata GMP. In Italia la legislazione non accetta questa cosa, ma l’assurdo consiste nel fatto che accetta però un prodotto di importazione che venga fuori da questo processo di macchinazione economica.
La legislazione in alcuni paesi europei, in merito, è molto più chiara, le norme francesi sono senz’altro quelle che più dettagliatamente disciplinano, e quindi legittimano tale pratica, ma anche nella normativa di altri paesi troviamo riferimenti significativi. Negli Stati Uniti le Good Compounding Pratices lasciano notevole libertà al farmacista nel reperimento delle materie prime; un recentissimo articolo pubblicato su International Journal of Pharmaceutical Compounding fornisce suggerimenti e pone limiti razionali nell’uso dei commercially manufactured products a conferma della riconosciuta possibilità di sconfezionare per preparare, ovviamente con il massimo senso di responsabilità e rigore scientifico.
L’ordinanza in commento, va detto subito, è stata emessa a seguito di reclamo contro un’ordinanza cautelare di primo grado – scrive “Il Sole 24 ore – Una multinazionale farmaceutica si era avveduta che un’azienda italiana stava importando da altri mercati europei il proprio prodotto O.T.U., consistente in strisce reattive per la misurazione della glicemia, previo loro riconfezionamento; in particolare, l’importatore acquistava confezioni da 50 strisce e le riconfezionava per il mercato italiano in formati da 25 e 100 ( Incidentalmente, si nota che il prodotto O.T.U. è stato al centro di un caso piuttosto noto di importazione parallela di dispositivi medici deciso in Germania; tuttavia, per quanto consta a chi scrive, i fatti della causa tedesca erano diversi).
Allegando che il riconfezionamento fosse lesivo dei propri diritti di marchio, la produttrice aveva chiesto e ottenuto dal Tribunale di Milano contro l’importatore parallelo e un rivenditore al dettaglio (una farmacia milanese) il sequestro e l’inibitoria urgente del prodotto riconfezionato. Ebbene, nel caso di specie il Collegio, confermando il giudizio del giudice di primo grado, ha ritenuto che le reclamanti non avessero dimostrato l’obiettiva necessità del riconfezionamento al momento della commercializzazione del dispositivo in Italia. I giudici hanno osservato come, anzi, fosse pacifico tra le parti che su diversi mercati europei i medesimi prodotti fossero commercializzati anche nei formati da 25 e 100 strisce, che l’importatore parallelo avrebbe potuto acquistare ed importare senza necessità di riconfezionamento. Ne deriva, secondo il Collegio, che il riconfezionamento fosse stato dettato da meri motivi di vantaggio commerciale, incompatibili con la condizione di necessità.
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