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Riconfezionamento e gmp: necessità o vantaggio economico? A cura della dottoressa Fabiana Criscuolo

La vexata quaestio dello sconfezionamento di medicinali prodotti industrialmente, come fonte di materia prima o per la realizzazione di forme farmaceutiche a dosaggi non presenti sul mercato è una scottante problematica che si fa strada da alcuni anni. Capita talvolta di avere bisogno di un quantitativo di materia prima, ad esempio 50 grammi di acido acetilsalicilico, e sentirsi rispondere dal fornitore abituale che è disponibile solo la confezione da un chilo. Fino a qualche tempo fa invece ci si vedeva recapitare un sacchetto od un barattolo, in qualche caso addirittura privo di sigillo, e riportante l’etichetta del grossista, contenente i 50 g richiesti.

Con l’entrata in vigore, il 6 luglio 2006, del decreto legislativo 24 aprile 2006, n. 219 dal titolo: “Attuazione della direttiva 2001/83/CE (e successive direttive di modifica) relativa ad un codice comunitario concernente i medicinali per uso umano, nonché della direttiva 2003/94/CE ciò non è più possibile in quanto l’art. 54 del decreto estende anche alle “varie operazioni di divisione, confezionamento o presentazione che precedono l’incorporazione della materia prima nel medicinale, compresi il riconfezionamento e la rietichettatura effettuati da un distributore all’ingrosso di materie prime ”, l’obbligo del possesso dell’autorizzazione, quale officina farmaceutica, da parte dei grossisti che non si limitano a distribuire confezioni di materie prime sigillate all’origine, ma, previa apertura dei contenitori originali, le suddividono per soddisfare le richieste. La produzione di materie prime infatti prevede, oltre alla specifica autorizzazione, il rigoroso rispetto delle GMP (Good Manufacturing Pratices) e cioè delle linee guida europee cui si debbono attenere tutti i produttori di medicinali.

Dunque quella del “riconfezionamento” deve essere una pratica attuata solo per necessità di dosaggio, non per mero interesse economico, eppure ci sono industrie europee che hanno fatto di questa pratica e del relativo mercato di importazione parallelo una fonte di redditizio guadagno.

Io industria farmaceutica compro la materia ad un grado di purezza 1x, la riconfeziono e la vendo ad un grado di purezza maggiore, cioè certificata GMP. In Italia la legislazione non accetta questa cosa, ma l’assurdo consiste nel fatto che accetta però un prodotto di importazione che venga fuori da questo processo di macchinazione economica.

La legislazione in alcuni paesi europei, in merito, è molto più chiara, le norme francesi sono senz’altro quelle che più dettagliatamente disciplinano, e quindi legittimano tale pratica, ma anche nella normativa di altri paesi troviamo riferimenti significativi. Negli Stati Uniti le Good Compounding Pratices lasciano notevole libertà al farmacista nel reperimento delle materie prime; un recentissimo articolo pubblicato su International Journal of Pharmaceutical Compounding fornisce suggerimenti e pone limiti razionali nell’uso dei commercially manufactured products a conferma della riconosciuta possibilità di sconfezionare  per preparare, ovviamente con il massimo senso di responsabilità e rigore scientifico.

Proprio per questo, la scarsa giurisprudenza italiana sulla materia è prodotta interamente dalle Sezioni specializzate in materia d’impresa, che hanno competenza esclusiva, tra l’altro, sulle questioni di proprietà intellettuale. A questo filone appartiene la recente ordinanza n. 30014/2014 della Sezione Specializzata del Tribunale di Milano, che rappresenta una vittoria per lo schieramento dei produttori.

L’ordinanza in commento, va detto subito, è stata emessa a seguito di reclamo contro un’ordinanza cautelare di primo grado – scrive “Il Sole 24 ore – Una multinazionale farmaceutica si era avveduta che un’azienda italiana stava importando da altri mercati europei il proprio prodotto O.T.U., consistente in strisce reattive per la misurazione della glicemia, previo loro riconfezionamento; in particolare, l’importatore acquistava confezioni da 50 strisce e le riconfezionava per il mercato italiano in formati da 25 e 100 ( Incidentalmente, si nota che il prodotto O.T.U. è stato al centro di un caso piuttosto noto di importazione parallela di dispositivi medici deciso in Germania; tuttavia, per quanto consta a chi scrive, i fatti della causa tedesca erano diversi).

Allegando che il riconfezionamento fosse lesivo dei propri diritti di marchio, la produttrice aveva chiesto e ottenuto dal Tribunale di Milano contro l’importatore parallelo e un rivenditore al dettaglio (una farmacia milanese) il sequestro e l’inibitoria urgente del prodotto riconfezionato. Ebbene, nel caso di specie il Collegio, confermando il giudizio del giudice di primo grado, ha ritenuto che le reclamanti non avessero dimostrato l’obiettiva necessità del riconfezionamento al momento della commercializzazione del dispositivo in Italia. I giudici hanno osservato come, anzi, fosse pacifico tra le parti che su diversi mercati europei i medesimi prodotti fossero commercializzati anche nei formati da 25 e 100 strisce, che l’importatore parallelo avrebbe potuto acquistare ed importare senza necessità di riconfezionamento. Ne deriva, secondo il Collegio, che il riconfezionamento fosse stato dettato da meri motivi di vantaggio commerciale, incompatibili con la condizione di necessità.

Notizie correlate: Decreto Legislativo 24 aprile 2006, n. 219

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