In un gustoso passaggio del suo Zavorre d’Italia, il presidente dell’autorità Antitrust, Antonio Catricalà, ricorda che quando nel 2006 propose l’installazione di distributori automatici di farmaci da banco fu accusato di voler mettere in pericolo la salute pubblica. Si paventarono «file di bambini pronti a intossicarsi di aspirine e caramelle contro il mal di gola». Erano ovviamente incredibili esagerazioni da parte di una della più agguerrite categorie che solcano le acque dell’economia italiana: i farmacisti.
Le battaglie a difesa dei loro privilegi sono epiche: basti pensare alle grida di dolore che si levarono da tutt’Italia quando Bersani osò proporre la liberalizzazione dei farmaci da banco. L’Italia si sarebbe trasformata in un paese d’intossicati da parte delle catene della grande distribuzione (tra l’altro quasi tutte straniere, perdinci!). E per consentire a supermercati e parafarmacie di vendere aspirine e caramelline balsamiche si dovette giungere al compromesso di avere un farmacista sempre presente e alcune regioni vi aggiunsero l’obbligo di box di vendita a sé stanti, fax e registratori di cassa separati e altri piccoli ostacoli alla concorrenza che, tuttavia, non hanno impedito alle parafarmacie di applicare prezzi medi inferiori dell’8,3% di quelli delle farmacie.
Naturalmente molti regolamenti e leggi in vigore non hanno nulla a che vedere con la salute. Un esempio è il legame tra proprietà e gestione delle farmacie o il caso recente dei farmacisti di Belluno che, volendo tenere aperta la farmacia tutto l’anno, sono stati prontamente sanzionati dal locale ordine professionale appellatosi a una legge regionale che prevede la chiusura obbligatoria per 15 giorni. Il Veneto non è giustamente un caso isolato: nel 2009 l’Autorità garante della concorrenza ha stigmatizzato, ad esempio, una legge della Calabria in cui si prevedono orari massimi di apertura, diversificati tra farmacie rurali e urbane e con potere consultivo degli ordini professionali per le eventuali deroghe (come se i tacchini legiferassero sul menu di Natale).
Eclatante è poi il divieto di concorrenza tra farmacie stabilito dalla pianta organica comunale per la quale due esercizi non possono aprire troppo vicini tra loro e l’ubicazione degli stessi è stabilita imperativamente. Di questo si è occupata una sentenza del Consiglio di stato del 23 novembre che ci fa chiudere l’anno in bellezza. La fattispecie esaminata dai giudici amministrativi era semplice: gli eredi della proprietaria della farmacia L, situata in un comune in provincia di Cosenza di 4.500 anime, desideravano trasferire l’esercizio in una contrada dello stesso paese ma diversa da quella dove si trova attualmente e distante 4,2 km percorribili in auto in sei minuti. Trasferimento negato dalla municipalità, in quanto la nuova sede della farmacia era più disagevole (!) da raggiungere per la maggioranza della popolazione: di qui l’impugnazione del diniego.
Purtroppo per gli eredi, sia Tar che Consiglio di stato hanno ribadito che il comune ha il potere di decidere cosa è conveniente e cosa non lo è per i suoi abitanti e che tale discrezionalità prevale, nel nome del pubblico interesse, sul diritto costituzionalmente garantito di libera iniziativa privata. Né il municipio ha un dovere di rivedere la pianta organica, magari consentendo l’apertura di una farmacia sostitutiva. Insomma, il potere pubblico ha discrezionalità su tutto e non è nemmeno tenuto a favorire la concorrenza, permettendo l’ingresso di nuovi entranti al posto di chi legittimamente ambirebbe cambiare zona.
Che dire? Finché leggi e giurisprudenza rimarranno così amorevolmente avvinghiati al concetto d’interesse pubblico deciso dai burocrati e politici di turno calpestando i diritti individuali