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Produzione di farmaci: l’Italia potrebbe diventare leader europeo superando la Germania

La sconfitta di Milano nella votazione per l’Ema rallenta ma non azzera la rincorsa al gradino più alto, occupato oggi dalla Germania. Più 19% il giro d’affari dell’industria farmaceutica tricolore negli ultimi sette anni. E’ per questo che big come Bayer, GlaxoSmithklin, Roche, Novartis, Pfizer, Bristol-Myers Squibb, Teva producono in Italia, attratte dal nostro saper fare manufatturiero

Industria Italiana – 23 novembre 2017 – di Marco Frojo

Milano è stata sconfitta da Amsterdam nella battaglia per l’Ema ma l’Italia potrà presto prendersi una importante rivincita. E senza dover sperare nella buona sorte, come ha dovuto fare la capitale olandese per vedersi assegnare la sede dell’Agenzia europea per i farmaci. L’industria farmaceutica tricolore ha infatti tutte le carte in regola per scalzare la Germania dal gradino più alto nella classifica dei produttori a livello di Unione Europea (ma non dell’Europa perché la Svizzera gioca in un’altra categoria). Nel 2016 la produzione di farmaci sul territorio italiano è stata pari a 30 miliardi di euro, contro i 31 miliardi fatti registrare da Berlino. Merito soprattutto dei tanti stabilimenti di multinazionali straniere – dalla tedesca Bayer alla britannica GlaxoSmithkline – che scelgono di venire a produrre in Italia o di continuare a farlo, motivate dal saper fare manifatturiero che il nostro Paese vanta da decine di anni in questo settore. Il loro peso è pari a ben il 60% del totale.

L’industria farmaceutica nazionale in corsia di sorpasso

La crescita del Belpaese viaggia a una velocità decisamente superiore rispetto a quella tedesca ed è quindi ipotizzabile che il piccolo gap venga chiuso nell’arco di pochi anni. Dal 2010 ad oggi la crescita dell’industria farmaceutica italiana non ha avuto rivali nell’Unione Europea sia in termini di giro d’affari che di export. In sette anni il primo ha mostrato un progresso cumulato del 19%, mentre il secondo del 69%. Nello stesso arco di tempo la Germania si è invece dovuta accontentare di un rialzo della produzione inferiore al 10%, anche a causa di alcuni passi falsi come quello fatto nel 2015, quando i ricavi sono scesi di poco più del 2%. La forza dell’industria farmaceutica italiana emerge anche dal confronto con altri indicatori della nostra economia: dal 2010 al 2016 l’industria manifatturiera nel suo complesso ha mostrato un declino del 5%; più impegnativa la sfida con l’export che anche a livello nazionale ha fatto molto (+33%) ma non tanto quanto nel settore dei farmaci. Per l’industria farmaceutica i dati più recenti parlano di un aumento del giro d’affari del 5,7% nel 2015, del 2% nel 2016 e di un altro 2% previsto per quest’anno.

Le ragioni del successo del Pharma italiano

Questi risultati sono stati conseguiti grazie a importanti sforzi da parte delle aziende italiane, primo dei quali l’investimento di ingenti somme nel campo della ricerca e sviluppo (R&S). Con 1,5 miliardi investiti in R&S nel 2016 (il 7% del totale in Italia), l’industria farmaceutica è terza tra i settori manifatturieri, dopo i mezzi di trasporto e la meccanica, e prima sia per quota di imprese innovative sia per rapporto tra spese per innovazione e addetti. Anche in termini di R&S il tasso di crescita è stato significativo: negli ultimi tre anni si è infatti registrato un +20%, pari a 250 milioni in più. A beneficiarne sono stati soprattutto i farmaci first-in-class, ovvero che danno vita a una nuova classe di prodotti, e l’innovazione beyond-the-pill, legata all’interazione tra farmaco e dispositivi digitali, allo scopo di migliorare l’health outcome del paziente.

Fra i singoli comparti spiccano i progressi messi a segno nel campo delle biotecnologie (alle quali le imprese del farmaco contribuiscono per circa il 90%), dei vaccini, degli emoderivati, delle terapie avanzate, dei farmaci orfani e della medicina di genere, sempre più in partnership con le strutture pubbliche. E proprio le istituzioni hanno contribuito non poco al successo dei farmaci tricolori, fornendo il giusto contesto normativo e favorendo gli investimenti esteri. Nel 2016, per esempio, le imprese del farmaco hanno investito 700 milioni di euro in studi clinici presso le strutture del servizio sanitario nazionale, dimostrando nei fatti che l’Italia ha le caratteristiche per diventare un hub per gli studi clinici in quanto vanta solide competenze scientifiche nell’industria, nelle università e nelle strutture del servizio sanitario nazionale.

Gli investimenti delle multinazionali (60% del totale)

L’Italia è ai primi posti in Europa come Paese di destinazione degli investimenti delle più importanti imprese multinazionali: è la meta più gettonata dalle aziende statunitensi e tedesche e la seconda scelta per quelle francesi e svizzere. L’estero, come si è già detto, pesa per il 60% del totale. Per le case farmaceutiche del Regno Unito, inoltre, il Belpaese è un hub mondiale per la produzione dei vaccini.

Ad attrarre le case straniere sono soprattutto la disponibilità di lavoratori specializzati e l’efficienza dei settori dell’indotto (per esempio materie prime, semilavorati, macchine e tecnologie per il processo e il confezionamento, componenti e servizi industriali), che con 66 mila addetti creano sinergie di crescita, in particolare nella meccanica e nel packaging. Non stupisce quindi che, secondo una ricerca del Cerm, l’Italia sia prima in Europa per impatto della produzione farmaceutica sull’indotto nazionale. Agli 1,5 miliardi investiti in Ricerca&Sviluppo si vanno infatti ad aggiungere altri 1,2 miliardi spesi per la costruzione di impianti produttivi ad alto valore aggiunto.

Quasi tutte le imprese rinnoveranno i loro impianti nei prossimi tre anni, alimentando un processo virtuoso che potrà rendere il settore ancora più competitivo, in particolare con investimenti in automazione e digitalizzazione – secondo i trend di Industria 4.0 – per adottare modelli, processi e organizzazione aziendale in direzione della cosiddetta “smart factory”. Le imprese del farmaco, dopo aver già raggiunto un livello di avanguardia nell’automazione, vanno ora verso l’uso di robot intelligenti capaci di interagire in tempo reale con gli addetti. Investendo sempre di più in software per la gestione integrata della fabbrica (ordini, magazzino, produzione), tecnologie di additive manufacturing (ad esempio la stampa 3D o di prototipizzazione virtuale), logistica intelligente e integrazione con l’indotto.

I top player nazionali ed esteri presenti in Italia

Il tessuto produttivo delle case farmaceutiche a capitale italiano è fatto di imprese medio-piccole, una situazione perfettamente in linea con la struttura economica di tutta l’industria manifatturiera, che si differenzia nella sostanza da quella tedesca dominata da pochi big player (Bayer, Schering e Merck). Tutte assieme, le aziende aziende a capitale italiano producono 12 dei 30miliardi di euro che il nostro Paese può complessivamente vantare, tenendo cioè conto anche degli stabilimenti delle aziende estere. Va però anche detto che alcuni campioni italiani hanno siti produttivi all’estero che forniscono il proprio contributo al Paese dove hanno scelto di investire.

Lucia e Alberto Giovanni AleottiÈ questo il caso della Menarini che produce sia a Dresda che a Berlino contribuendo, seppur in minima parte, ai 31 miliardi di euro vantati dalla Germania. Al vertice della classifica delle aziende farmaceutiche a capitale italiano c’è proprio la Menarini (vedi Industria Italiana) che, secondo i dati di Farmindustria, nel 2016 ha fatturato 3,5 miliardi di euro; seguono Chiesi (1,6 miliardi), Bracco (1,36 miliardi), Recordati (1,2 miliardi), Alfasigma (1 miliardo). Nella top ten si piazzano altre cinque aziende che, pur avendo fatturati inferiori rappresentano realtà molto forteidel comparto: Angelini (850 milioni), Zambon (700 milioni), Italfarmaco (650 milioni), Kedrion (650 milioni), Dompé (260 milioni).

Le aziende farmaceutiche presenti in Italia sono oltre 200 e danno lavoro a 64.000 persone. Fra gli stranieri spiccano, fra gli altri, i nomi di Roche, Novartis, Pfizer, Teva, Bristol-Myers Squibb e GlaxoSmithKline. La svizzera Roche ha per esempio avviato l’attività in Italia nel 2000 con un investimento da oltre 100 milioni nello stabilimento di Segrate vicino a Milano; il sito, che oggi dà impiego a 400 persone, è destinato alla produzione e al confezionamento di formulazioni solide e in gocce che per l’80%vanno all’estero. La connazionale Novartis ha scelto di concentrare la propria produzione farmaceutica a Torre Annunziata in provincia di Napoli, costruendo uno dei più importanti poli produttivi del gruppo a livello mondiale e tra i maggiori insediamenti farmaceutici del Mezzogiorno; un secondo stabilimento è presente a Rovereto dove vengono prodotti i principi attivi per farmaci generici.

La statunitense Pfizer, il numero uno al mondo del Pharma, ha ben tre siti produttivi nello Stivale: Ascoli Piceno, Latina e Catania. La numero due, la Bristol-Myers Squibb (anch’essa statunitense), impiega 700 persone nel sito di Anagni, dove è presente dal 1966. Non manca neanche il numero tre, l’inglese GlaxoSmithKline, che ha tre stabilimenti: Verona, San Polo di Torrile (Parma), Rosia (Siena). L’israeliana Teva, ( vedi Industria Italiana ) il principale produttore a livello mondiale di farmaci equivalenti, opera in Italia con addirittura cinque siti per la produzione di principi attivi e uno, rilevato di recente, per i prodotti finiti. Con questa struttura Teva è in grado di coprire tutto il ciclo produttivo del farmaco.

I big data sono anche nel futuro del Pharma italiano

Procheer conoscere l’evoluzione della R&S farmaceutica in Italia, Farmindustria ha svolto un’indagine sulle strategie di investimento nei prossimi anni, con risultati molto significativi.

Ciò si osserva innanzitutto nella composizione della Ricerca e dell’Innovazione, nelle quali cresce in modo rilevante il ruolo dei farmaci first in class, e dell’innovazione beyond the pill. Si conferma poi il crescente interesse per attività sulla frontiera della ricerca, quali terapie personalizzate, malattie rare, biotecnologie e terapie avanzate e medicina di genere. Si afferma poi la ricerca basata sugli esiti clinici dei farmaci, la cosiddetta Real World Evidence. Attività che le imprese svolgono sviluppando sempre di più delle partnership con soggetti diversi, secondo il modello della open innovation, che coinvolge in maniera crescente le imprese ICT, per valorizzare sinergie che, utilizzando i Big Data, favoriscono la medicina di precisione.

Una tendenza che si rispecchia anche nella crescita diffusa delle imprese che ritengono molto importante l’innovazione digitale per la loro ricerca nei prossimi anni. “L’industria farmaceutica è un grande motore di sviluppo per l’economia italiana – scrive nel suo ultimo rapporto Farmindustria, l’associazione di categoria – Investimenti, qualità delle risorse umane, internazionalizzazione fanno sì che sia stabilmente al primo posto nella classifica Istat sulla competitività dei settori industriali. Per dare ancora più forza al sistema, il positivo processo iniziato con l’ultima Legge di Bilancio deve essere completato al più presto, con una nuova governance, che utilizzi al meglio tutte le risorse disponibili e sia ancora più favorevole agli investimenti e all’innovazione”.

La beffa dell’assegnazione della sede di Ema

Tenendo conto dello scenario delineato e del fatto che la Lombardia è la prima regione farmaceutica in Europa con 28mila addetti a cui si vanno ad aggiungere altre 18mila persone nell’indotto, si capisce facilmente quanto sia stato beffarda la votazione tenutasi a Bruxelles per scegliere una nuova sede per l’European Medicines Agency che ha dovuto traslocare da Londra a causa della Brexit. Ed è anche facile comprendere perché Milano abbia primeggiato durante i primi turni di votazioni, salvo essere sconfitta in finale da un sistema il cui meccanismo lascia parecchio perplessi: con il lancio della monetina si decide a chi spetta il calcio di inizio di una partita di calcio e non la destinazione di un’agenzia europea che è di fondamentale importanza per la salute dei cittadini dell’Unione e che muove interessi per circa 2 miliardi di euro.

La candidatura di Milano è infatti risultata in testa al primo turno: 25 voti contro i 20 di Amsterdam e Copenaghen (quando i voti a disposizione di ogni Stato erano 6); e prima è stata anche al secondo turno: 12 alla città meneghina e 10 alla capitale olandese. Per poi arrivare in parità (13 a 13) al ballottaggio. Eppure proprio l’esito delle votazioni ha confermato il prestigio di Milano fra le metropoli europee e la raggiunta competitività internazionale.

I voti raccolti in tutte le fasi del voto hanno inoltre rivelato quanto Milano sia capace di fare squadra: il sindaco Giuseppe Sala, il governatore regionale Roberto Maroni, il ministro della Sanità Beatrice Lorenzin e il sottosegretario agli Affari europei Sandro Gozi e le principali istituzioni cittadine, a partire da Assolombarda, hanno profuso uno sforzo coordinato che avrebbe meritato la vittoria, come testimoniato dal fatto che i 25 voti del primo turno sono stati più di quelli attesi.

Resta un grande rammarico perché con l’Ema insediata al Pirellone il sorpasso sulla Germania sarebbe stato veramente a portata di mano: le grandi multinazionali farmaceutiche, la maggior parte delle quali ha già sedi logistiche e commerciali nel nostro Paese, sarebbero state invogliate a trasferire qui anche laboratori e parte della loro produzione; sarebbero inoltre nati centri di ricerca e di consulenza e si sarebbe rafforzato lo Human Technopole (con annesse facoltà scientifiche delle università ed eccellenze della sanità milanese) nell’area Expo di Rho-Pero. Per la rivincita però bisogna solo avere pazienza.

Redazione Fedaisf

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