Il tribolato decreto Sviluppo è riuscito a passare mantenendo uno dei punti più controversi in mezzo all’assalto delle lobby mediche e farmaceutiche: l’indicazione obbligatoria del principio attivo contenuto nei farmaci prescritti dal medico in luogo della marca legata al brevetto (scaduto o meno).
A dire il vero l’ultima formulazione del testo è un po’ più morbida, prevedendo sì l’obbligatorietà della menzione del principio attivo ma dando la possibilità al medico di scrivere anche il nome della marca di fianco al suddetto principio, come consiglio “facoltativo” al paziente e al farmacista.
I termini della polemica sono noti: secondo il governo prescrivere il principio attivo rispetto al più caro farmaco di marca riduce la spesa sanitaria dello Stato e delle Famiglie verso l’industria farmaceutica. Il generico costa meno e l’indicazione in ricetta – pur non impedendo il consumo del farmaco di marca – fa diventare il generico l’opzione di consuetudine relegando il brand a eccezione. Il contrario di quanto avviene oggi.
Secondo le farmaceutiche (e c’è da capirli) e molti medici (qui si capisce meno) si tratta in realtà di un falso problema, in quanto già oggi il servizio sanitario nazionale rimborsa solo il valore del generico mentre il differenziale con il farmaco di marca viene pagato dal cittadino. Perché dunque insistere sulla menzione obbligatoria del generico (ad es. paracetamolo) nella ricetta (al posto di Tachipirina)? Se la spesa per lo Stato è la stessa?
E’ un punto valido, nella forma.