Ridurre artificiosamente i prezzi delle medicine riduce anche l’innovazione. Questione di salute. Pubblicamente si usa l’appellativo con accezione dispregiativa «Big Pharma» ed è accusata delle peggiori nefandezze, ma che nel privato si è disposti a qualunque sacrificio pur di potersi comprare il farmaco di ultima generazione
Il Sole 24 Ore, domenica 5 luglio
Il prezzo dei farmaci è un tema di cui si è discusso accesamente negli ultimi anni in Italia e non solo, in ragione del fatto che sembrano decisi in modo arbitrario, e in generale senza tener conto (o tenendone conto in qualche forma strumentale) che poter disporre o meno di una medicina in ragione del potere d’acquisto significa poter o meno evitare per un tempo più o meno lungo malattia o morte. Per questa ragione spesso anche coloro che comprendono i vantaggi della concorrenza e del mercato nella determinazione dei prezzi, nel caso dei farmaci pensano che vi siano dei vincoli morali dettati da una superiore idea di giustizia, a cui gli industriali devono essere richiamati dai governi, se si lasciano prender la mano e cercano di lucrare sulle sfortune altrui.
Nei paesi occidentali la spesa per l’acquisto di farmaci è circa il 20% del totale delle spese sanitarie. Parliamo di circa 26 miliardi di euro spesi ogni anno in Italia, e che alimentano un’industria, quella farmaceutica, verso cui le nostre società, che stanno meglio e vivono più a lungo, intrattengono un rapporto ambivalente. Lo dimostra che pubblicamente si usi l’appellativo con accezione dispregiativa «Big Pharma» e quell’industria sia accusata delle peggiori nefandezze, ma che nel privato si sia disposti a qualunque sacrificio pur di potersi comprare il farmaco di ultima generazione, che si crede possa migliorarci la salute o ritardare la morte. I risvolti economici, politici, etici e psicologici della produzione e del consumo dei farmaci sono largamente studiati, anche se a leggere i quotidiani italiani o ad ascoltare le discussioni o decisioni sui casi Avastin/Lucentis, vaccino Fluad, farmaci anti-epatite C, etc. sembra di vivere in una paese intellettualmente piuttosto disinformato. Nel senso che anche in questo caso si leggono o si ascoltano opinioni, mosse prevalentemente da pregiudizi ideologici soprattutto anti-mercato (senza avete capito cosa è il mercato), piuttosto che analisi criticamente documentate, e stupidamente ci si diverte a sparare contro le agenzie regolatorie, come l’Aifa, invece di fare un uso intelligente dei dati che raccoglie ed elabora, o di valorizzare la qualità delle competenze tecniche di cui dispone, in nome dei soliti beceri populismi italioti.
Di sbagli grossolani l’industria farmaceutica ne fa e non pochi – soprattutto non sa proprio comunicare e far capire quale valore culturale incarna, ed è davvero troppo genuflessa al cospetto dei ricatti politici che da sempre in questo paese la strangolano – ma si tratta di un patrimonio intellettuale ed economico che il mondo occidentale dovrebbe tenersi da conto e valorizzare, invece che bistrattare.
La Fondazione Zoé ha promosso il mese scorso per il secondo anno nell’elegante spazio della Health and Quality Factory un incontro e confronto sul valore dell’innovazione in campo farmaceutico. Per l’occasione è stato commissionato uno studio ad A.T. Kearny dal quale risulta che le attività di produzione farmaceutica generano circa 2,8 miliardi di euro di Pil, ossia il 31% del totale del settore, il 34% circa della sua occupazione, nonché 1,2 miliardi di euro di investimenti e 20,7 miliardi di export. Le esportazioni del settore valgono da sole quanto l’insieme degli altri ambiti ad alta tecnologia e sono cresciute fra il 2009 e il 2013 a un tasso annuo del 12,3%, arrivando a rappresentare il 4,4% delle esportazioni totali del Paese.
Nonostante il succedersi costante di governi che hanno penalizzato i processi d’innovazione industriale in questo paese, siamo ancora il terzo marcato farmaceutico d’Europa e, dopo la Germania, il secondo per incremento delle esportazioni dal 2009. A molti, dunque, non piace che ci si possa arricchire facendo pagare secondo logiche di mercato per un bene, il farmaco, che può fare la differenza tra malattia e salute, tra vita e morte. Ma ci si dovrebbe ricordare di alcuni fatti. In primo luogo che le medicine sono davvero beni speciali, come aveva capito il Nobel Kenneth Arrow in un classico dell’economia del 1963, ma che a rendere particolarmente remunerativo innovare nel settore farmaceutico è innanzitutto la nostra disponibilità a pagare, per star bene, molto di più della nostra disponibilità economica. Se la salute non ha prezzo, è anche perché non siamo mentalmente capaci di stimarne i costi. E vada per i pazienti. Ma poi ci sono i medici, che a loro volta per default sovrastimano il prezzo di farmaci poco costosi e sottostimano quello di farmaci molto costosi.
Del resto, innovare avvantaggia tutti. Da oltre un decennio Frank Lichtenberg studia l’impatto dell’innovazione sulla longevità, e nel 2003 aveva dimostrato che tra i11982 e il 2000 le nuove entità chimiche introdotte sul mercato avevano contribuito per il 40% all’aumento della longevità, cioè ad allungare la vita di 0,8 anni sul totale di due anni. Negli ultimi anni l’economista della Columbia University si è concentrato sugli antitumorali e ha scoperto che le innovazioni farmaceutiche introdotte nel periodo tra il 1985 e il 1996 in Canada, hanno abbattuto di oltre 100mila anni la vita potenzialmente persa a causa del cancro prima dei 75 anni.
Dopo un lungo periodo di stasi e malgrado l’aumento dei costi di sviluppo dei farmaci, che si stima abbia superato i 2miliardi di dollari, sono in cantiere diverse migliaia di novità, in buona parte per cure personalizzate e molte che potrebbero avere significativi impatti per la cura di gravi malattie come cancro, diabete, arteriosclerosi, etc. Alcune di queste novità avranno costi importanti, pari o anche superiori al farmaco contro l’epatite C, di cui si è discusso accesamente negli ultimi mesi. Sarà una sfida ardua fare in modo che i vantaggi per la salute che deriveranno dai nuovi farmaci siano il più largamente accessibili, consentendo allo stesso tempo che continui a esservi interesse concreto a investire nell’innovazione da parte dell’industria.
Le strategie che saranno decise per regolare lo sviluppo e la commercializzazione, inclusa la contrattazione dei prezzi, potranno tener conto di diverse variabili e risultati, ma dovrebbero in ogni caso guardarsi dal penalizzare l’innovazione. Perché la conseguenza di imporre prezzi troppo bassi è provato che non solo disincentiva l’innovazione per cui riduce l’impatto positivo della ricerca farmaceutica applicata e industriale sulla longevità e la salute, ma determina anche minore varietà di farmaci efficaci a disposizione all’interno di un paese, cioè causa differenziale negativo di guadagno sul piano della salute in generale per i cittadini i cui governi pensano di aiutarli decidendo prezzi politici.
Gilberto Corbellini – 13-07-2015 – IL FOGLIO
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