Mobbing, dequalificazione e altri danni alla persona: come può difendersi il lavoratore
Il Fatto Quotidiano – 23 maggio 2018
Dequalificazione, mobbing, violazione della normativa di tutela della salute: sono solo i più frequenti tra gli eventi patologici del rapporto di lavoro che possono generare al dipendente che li subisce danni di vario tipo, sia di tipo patrimoniale, ossia consistenti in una perdita o un mancato guadagno di carattere economico, che di tipo non patrimoniale.
Tale ultima categoria, secondo la ricostruzione ormai ultradecennale della Corte di Cassazione, ricomprende tutti i pregiudizi a diritti ed interessi giuridicamente tutelati della persona non aventi rilevanza economica: vi è quindi il danno alla salute o danno biologico, consistente in una lesione dell’integrità psicofisica medicalmente accertabile, il cosiddetto danno morale, consistente nella sofferenza e disagio derivante dall’avere subito un atto illecito che incide su di un diritto costituzionalmente tutelato, e il cosiddetto danno esistenziale, consistente nell’alterazione delle abitudini e degli assetti relazionali della persona, che ne peggiori la qualità della vita.
Quando il lavoratore intende proporre una causa per uno di questi problemi è dunque essenziale non solo verificare se vi è stata una violazione di legge o di contratto da parte dell’azienda (diversamente questa non potrebbe essere chiamata a rispondere di danni per un atto in sé legittimo), ma altresì individuare, descrivere chiaramente ed altresì provare il tipo di danno subito; questo in quanto da tempo la giurisprudenza ritiene che il danno non consegua automaticamente alla commissione di un atto illegittimo da parte del datore di lavoro, ma deve essere sempre specificamente allegato e provato dal lavoratore.
Per quello che riguarda il danno alla professionalità derivante da dequalificazione (che è di tipo patrimoniale perché consiste nella perdita di conoscenze, esperienza o visibilità spendibili nel mercato del lavoro), viene dunque sempre più spesso chiesto dai giudici di spiegare se e come il lavoro precedentemente svolto necessitasse di aggiornamento o di pratica costante per mantenere e sviluppare l’abilità e le competenze acquisite, o se la sua perdita abbia fatto perdere delle chance di progressione di carriera.
Dimostrare poi il danno non patrimoniale subito sembra ancora più complicato: se per il danno biologico, essendo clinicamente accertabile, lo strumento a disposizione è chiaro ed è costituito dalla perizia medico legale, come fare per il danno esistenziale o addirittura per il danno morale, costituito dal sentimento di sofferenza del danneggiato?
Anche qui la giurisprudenza richiede che nel ricorso presentato dal lavoratore venga descritto concretamente come si è manifestata la sofferenza o il peggioramento della qualità di vita del lavoratore: il dipendente che lamenti di avere dovuto rinunciare ad attività extralavorative, di tipo familiare, sportivo o altrimenti inerenti al tempo libero, a seguito di un infortunio o dello stato di prostrazione determinato da mobbing, dovrà descrivere le attività cui ha dovuto rinunciare e documentarle o provarle chiamando a testimoniare amici o congiunti. Lo stesso tipo di prova viene richiesto dai giudici anche per provare il danno esistenziale (o danno alla vita di relazione) dovuto alla perdita del riposo settimanale.
Anche il danno morale, ossia la sofferenza in sé considerata derivante ad esempio da un comportamento vessatorio (come una molestia) potrà essere dimostrata ove il lavoratore o la lavoratrice interessata chiami a testimoniare i colleghi a cui ha tempestivamente confidato i propri timori ed il proprio disagio, o produca i messaggi scambiati con colleghi o il datore di lavoro tramite mail o su app di messaggistica come Whatsapp; l’importante è che venga data una forma di comunicazione esterna alla sofferenza vissuta. Anche sotto questo profilo, dunque, si conferma l’importanza di denunciare tempestivamentecomportamenti vessatori, mobbizzanti o molesti, avvalendosi anche delle possibilità fornite dalle nuove tecnologie.
Va poi detto che la stessa giurisprudenza di cui sopra ammette comunque, alleggerendo di fatto gli oneri del lavoratore, che la prova del danno possa essere fornita anche tramite indizi, presunzioni o il ricorso alla nozione del fatto notorio (ossia, ex art. 115 c.p.c., quelle nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza): e così, quanto più lunga e grave sarà stata una situazione di dequalificazione, tanto più potrà presumersi la perdita di professionalità, e parimenti quanto più grave sarà una molestia, tanto più il Giudice potrà essere indotto a riconoscere come rientrante nella comune esperienza la sofferenza che da essa deriva; è importante però ricordare come nulla debba essere dato per scontato in partenza, e come quindi sia importante procurarsi il prima possibile testimonianze e documenti che possano attestare tipo ed entità del danno subito.
Va solo da ultimo ricordato che danni alla dignità ed alla qualità della vita del dipendente possono ovviamente essere causati anche dal più grave dei provvedimenti adottabili dal datore di lavoro, ossia il licenziamento: sotto questo profilo, soprattutto dopo la riforma introdotta dal Jobs Act, è attuale il dibattito relativo alla congruità del sistema di indennizzi previsto per il caso di licenziamento illegittimo, tanto che questo è uno degli aspetti per i quali la legittimità della riforma è ora sottoposta al vaglio della Corte Costituzionale.
Autore: Davide Bonsognorio, socio Agi (Associazione giuslavoristi italiani). Esercita la professione di avvocato dalla parte dei lavoratori e dei sindacati; ha collaborato con diverse riviste specializzate del settore. Vive e lavora a Milano.