L’esperto risponde
L’angolo legale, l’esperto risponde
a cura dell’Associazione in collaborazione con l’Avv. ssa Maria Rita Famà
L’iscritto che avesse necessità di contattare l’avvocato o avesse bisogno di ulteriori chiarimenti può rivolgersi al proprio presidente sezionale
07/07/2010
L’ISF E GLI ONERI PREVIDENZIALI
E’ bene premettere che la figura dell’ISF è una figura non prevista dal codice civile, pertanto tale figura professionale viene spesso accostata, impropriamente, alla figura dell’agente di commercio.
Tale collocazione giuridica, tuttavia, risulta in evidente contrasto con il riconoscimento giuridico della figura dell’ISF operata dal Decreto Legislativo 30.12.1992 n.541. Con la predetta norma si chiarisce esplicitamente che l’ISF non può essere considerato un agente di commercio, avendo il compito di pubblicizzare al medico le caratteristiche del farmaco che rappresenta, oltre ad un’altra serie di compiti che nulla hanno a che fare con la commercializzazione.
Tale premessa, ai fini previdenziali, non è per nulla indifferente poichè vi sono due possibilità.
La prima consiste nell’iscrizione alla Camera di Commercio e di conseguenza all’Enasarco (iscrizione obbligatoria), ciò quando si consideri l’ISF un “agente di commercio”.
La categoria degli agenti di commercio è l’unica soggetta a due distinti trattamenti di previdenza obbligatoria: Enasarco e Inps.
L’INPS, nella gestione commercianti, pur essendo nata dopo l’Enasarco, è considerata la forma di previdenza principale, mentre l’Enasarco è definita previdenza integrativa.
La seconda, ovvero l’alternativa all’essere considerato “agente”, consiste nell’essere un “consulente autonomo”, che richiede l’apertura della partita IVA e l’iscrizione alla gestione separata INPS (qui l’iscrizione all’Enasarco è solo facoltativa), sottoscrivendo un contratto di “consulenza professionale”.
È proprio la seconda possibilità quella maggiormente in linea con la figura giuridica dell’ISF, che non è un agente di commercio ma rientra all’interno delle professioni intellettuali non protette, non esistendo un relativo albo professionale.
L’ISF non è un agente di commercio, infatti, se informa su farmaci etici di classe A,B o H, anche se lo può essere se informa su farmaci fitoterapici, nutraceutici, omeopatici, cosmoceutici etcc.
È bene precisare, tuttavia, che le caratteristiche della prestazione professionale dell’ISF sono connotate dal carattere di atipicità e che tale atipicità trova origine quasi certamente nell’assenza di un relativo albo professionale, lasciando di fatto l’ISF privo specifica tutela giuridica.
Logicamente, dunque, l’onere di contribuzione previdenziale presso l’Enasarco rivestirebbe esclusivamente un carattere integrativo, ovvero facoltativo, così l’ISF continua ad essere soggetto obbligato INPS, anche se a gestione separata.
L’Enasarco, fondamentalmente, è molto simile ad una assicurazione sulla vita.
La Fondazione Enasarco è, come detto, un istituto di previdenza integrativo delle prestazioni INPS, nel senso che eroga agli agenti e rappresentanti di commercio una pensione di invalidità, vecchiaia e superstiti integrativa di quella istituita dalla legge 22 luglio 1966, n. 613.
Secondo quanto stabilito dagli artt. 1 e 2 del Regolamento Enasarco, sono obbligatoriamente iscritti al Fondo di previdenza della Fondazione Enasarco, tutti i soggetti riconducibili alle fattispecie di cui agli artt. 1742 e 1752 cod. civ. (ovvero gli “agenti”), che operano sul territorio nazionale. Sono altresì tenuti alla iscrizione gli agenti ed i rappresentanti di commercio italiani che operano all’estero nell’interesse di preponenti italiani.
L’obbligo di iscrizione al Fondo di previdenza riguarda gli agenti che operino individualmente e quelli che operino in società o comunque in associazione, qualunque sia la forma giuridica assunta.
L’Enasarco, con Delibera 18 febbraio 2000, n. 2/2000 (approvata dal Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale, di concerto con il Ministero del Tesoro, con Comunicato del 5 luglio 2000, riportato nella G.U. n. 197 del 24 agosto 2000), ha varato nuove modifiche al Regolamento della Fondazione che consistono, fondamentalmente, nell’abrogazione del riferimento all’iscrizione al Ruolo degli agenti e rappresentanti di commercio, che cessa, pertanto, di essere condizione per l’iscrizione all’Enasarco.
L’Enasarco ha così fissato la nuova regola: si ha l’obbligo di iscrizione all’Enasarco, con conseguente tutela sul piano previdenziale, in presenza di una prestazione che abbia le caratteristiche proprie del contratto di agenzia, anche se l’intermediario interessato non risulti iscritto nel Ruolo agenti e rappresentanti di commercio, tenuto presso la Camera di Commercio.
Tale modifica da parte dell’Enasarco (che recepisce la Direttiva Comunitaria n. 86/653/CEE riguardo agli agenti di commercio, nonché la Sentenza 13 luglio 2000 della Corte di Giustizia Europea e quando stabilito dalla Corte di Cassazione con la sentenza 16 maggio 1999 n. 4817) sancisce la piena validità dei contratti di agenzia stipulati tramite agente non iscritto al Ruolo tenuto dalla Camera di Commercio, nonostante il contrasto sussistente fra la normativa nazionale (artt. 2 e 9 della Legge n. 204/1985) e la disposizione della normativa comunitaria.
In altri termini, le aziende che usufruiscono delle prestazioni di agenti non iscritti a Ruolo procacciatori d’affari, debbono iscrivere gli stessi all’Enasarco e versare le quote contributive dovute, se le prestazioni di detti soggetti risultino non più occasionali.
L’obbligo di contribuzione Enasarco vale dunque solo in presenza di una prestazione che abbia le caratteristiche proprie del contratto di agenzia.
A sostegno di quanto riportato sopra, la stessa Fondazione Enasarco, chiarisce che, in base alla Delibera n.2/2000, sopra menzionata:
“Le Ditte mandanti devono iscrivere obbligatoriamente:
• gli Agenti operanti in forma individuale
• gli Agenti costituiti in Società di capitali (s.p.a., s.r.l., accomandita per azioni)
• i soci illimitatamente responsabili e che svolgono effettivamente attività di
agenzia, nel caso di Agenti costituiti in società di persone
• i promotori finanziari.
L’obbligo di iscrizione è a carico della Ditta e nasce nel momento in cui conferisce un mandato di Agenzia o Rappresentanza Commerciale. All’atto della prima iscrizione la Fondazione accende un conto personale intestato ad ogni singolo Agente sul quale affluiranno i versamenti effettuati da tutte le Ditte preponenti. La Fondazione, a richiesta dell’interessato o del suo delegato, rilascia all’Agente il certificato di iscrizione ad Enasarco.
Chi NON deve essere iscritto alla Fondazione
Tutti coloro che svolgono un’attività che, seppure finalizzata alla promozione/conclusione di contratti, è attuata senza i necessari requisiti di stabilità e continuatività del rapporto con la Ditta e senza assunzione in proprio del rischio economico, come previsto dagli Artt. 1742- 1752 del Codice Civile in materia di contratto di agenzia.
Pertanto NON devono essere iscritti:
• i mediatori
• i procacciatori di affari
• i propagandisti scientifici e gli informatori farmaceutici
• i propagandisti editoriali
• i depositari e i consegnatari di prodotti
• gli agenti assicurativi
• gli agenti immobiliari
• i soci non amministratori o accomandanti delle società di persone
• in generale tutti coloro che nelle società di persone si limitano a percepire gli utili dell’attività senza partecipare all’attività di agenzia.
A queste figure professionali non si applica la normativa Enasarco e sono quindi escluse dal trattamento previdenziale della Fondazione. Qualora un soggetto eserciti una molteplicità di funzioni (ad esempio svolga contemporaneamente attività di agenzia e quella di depositario di merci), l’orientamento della giurisprudenza e della Fondazione è quello di individuare il corretto connotato giuridico in base all’attività prevalente.”
E’ quindi la stessa Enasarco che ritiene che l’ISF non è soggetto obbligato alla contribuzione Enasarco, egli è e continua a rimanere pertanto obbligato alla contribuzione INPS, e solo in via eventuale e con carattere integrativo può assoggettarsi a contribuzione Enasarco.
In ordine alla specifica questione che riguarda la possibilità del ricongiungimento presso l’Inps della contribuzione versata presso l’Enasarco, ciò è impossibile poiché il trattamento previdenziale Enasarco ha natura integrativa e non sostitutiva dell’assicurazione generale obbligatoria.
Per il diritto alla ricongiunzione, il presupposto è che, ai sensi della legge n. 29/1979, si tratti di forme di previdenza sostitutive dell’assicurazione generale obbligatoria, mentre il trattamento previdenziale Enasarco ha natura integrativa come espressamente indicato nell’art. 2, comma primo, della legge n. 12/1973 (Cfr. Corte d’Appello di Firenze n. 222 del 18.7.2000).
Già l’art. 29, comma 2, della legge n. 613/1966 aveva attribuito la stessa natura integrativa al trattamento previdenziale riservato agli agenti e rappresentanti di commercio, per cui riproporre oggi il problema in relazione all’ISF appare superfluo, posto che l’ISF se svolge mansioni di vero e proprio informatore scientifico, non essendo qualificabile come “agente”, non è nemmeno soggetto obbligato a contribuzione Enasarco.
CONCLUDENDO
L’ISF non è un agente di commercio se informa su farmaci etici di classe A,B o H, ma lo può essere se informa su farmaci fitoterapici, nutraceutici, omeopatici, cosmoceutici etcc.
Ad ogni modo la reale natura dell’ISF è scientifica, egli è appunto informatore scientifico, come previsto dal D.L. 30.12.1992 n. 541.
Non essendo agente di commercio non è, dunque, soggetto obbligato Enasarco.
La contribuzione Enasarco è una mera facoltà, che non può essere imposta, nemmeno dal datore di lavoro, rimanendo ex lege obbligato solo ed esclusivamente verso l’INPS, eventuali contratti a provvigioni con previsione di contribuzione Enasarco, potrebbero addirittura ritenersi irregolari qualora l’ISF svolgesse solo prestazioni scientifiche.
In ogni caso, la contribuzione ENASARCO non esclude l’obbligo di iscrizione all’INPS con relativa contribuzione.
18/05/2010
IL RIENTRO DALLA MATERNITA’
Ai sensi dell’art.56 26.03.01 n.151, le lavoratrici hanno diritto di conservare il posto di lavoro e, salvo che espressamente vi rinuncino, di rientrare nella stessa unità produttiva ove erano occupate all’inizio del periodo di gravidanza o in altra ubicata nel medesimo comune, e di permanervi fino al compimento di un anno di età del bambino; hanno altresì diritto di essere adibite alle mansioni da ultimo svolte o a mansioni equivalenti, nonché di beneficiare di eventuali miglioramenti delle condizioni di lavoro, previsti dai contratti collettivi ovvero in via legislativa o regolamentare, che sarebbero loro spettati durante l’assenza.
La disposizione, quindi, si traduce in un espresso divieto del datore di lavoro di operare la modificazione del rapporto di lavoro sotto un duplice profilo, il luogo della esecuzione del rapporto di lavoro e quello delle mansioni espletate.
L’inosservanza di tali disposizioni è, addirittura, punita con una sanzione amministrativa, che pertanto rende la norma di tutela imperativa e come tale inderogabile.
La Corte di Giustizia Europea ha recentemente chiarito che l’adozione di misure preparatorie di una decisione di licenziamento di una lavoratrice in ragione della gravidanza/o della nascita di un figlio nel periodo che va dall’inizio della gravidanza al termine del congedo di maternità è contraria alla direttiva n. 92/85/Cee, concernente l’attuazione di misure per il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento. Tale decisione è altresì definita in contrasto con la direttiva n. 76/207/Cee, relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne circa l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionale e alle condizioni di lavoro.
Secondo pronuncia di merito, il trasferimento della lavoratrice al rientro dal congedo di maternità è illegittimo anche se la gravidanza si è conclusa con la nascita di un bambino morto (Tribunale Milano 06 luglio 2002).
La violazione di tale norma implica una nullità assoluta del provvedimento di modifica impartito dal datore di lavoro, con la conseguente inidoneità a produrre qualunque effetto.
Da ciò consegue, chiaramente, il diritto della lavoratrice madre a mantenere lo stesso luogo di lavoro e le medesime mansioni.
Ne consegue che nel caso dell’ISF, l’allargamento ad altre provincie è del tutto illegittimo, perché corrisponde alla modificazione del luogo di lavoro, e produce maggiori disagi nell’espletamento della sua attività.
A ciò va aggiunto che anche le mansioni da ultimo richieste devono essere equivalenti a quelle prima ricoperte.
Le nuove mansioni che prevedono un target del tutto estraneo alle competenze professionali e alle stesse finalità aziendali, come la radicale modifica della linea produttiva, sono da ritenersi mutamento di mansioni, e come tale il provvedimento che le ordina è da ritenersi del tutto illegittimo, qualora sia idoneo a disperdere il patrimonio di conoscenze scientifiche e personali acquisito durante la pregressa attività.
24/03/2010
LEGITTIMITA’ DEI CONTRATTI ENASARCO PER L’INFORMATORE SCIENTIFICO DEL FARMACO?
La mancanza di un Albo professionale rende più che mai difficile la linea di demarcazione tra l’informazione scientifica ai fini di una corretta diffusione dei farmaci e la rappresentanza finalizzata alla vendita del farmaco.
Anche la prassi si evolve più verso la commercializzazione che verso la informazione…
Il Decreto Legislativo 30.12.1992 n.541, entrato in vigore nel gennaio dell’anno successivo, com’è noto, regola il ruolo dell’informazione scientifica in Italia e all’informatore viene affidato il delicato compito di pubblicizzare al “medico” le caratteristiche del farmaco che rappresenta, e che l’azienda farmaceutica da cui dipende intende commercializzare.
All’art.9 è espressamente dettato che “L’attività degli informatori scientifici è svolta sulla base di un rapporto di lavoro univoco e a tempo pieno”.
Risulta palese il rinvio ad un rapporto di lavoro subordinato.
Con il Decreto Legislativo 24.04.2006 n.219, all’art.122 viene riformulato il contenuto dell’attività degli informatori scientifici.
Al comma 3 del suddetto articolo, si riporta che “l’attività degli informatori scientifici e’ svolta sulla base di un rapporto di lavoro instaurato con un’unica impresa farmaceutica. Con decreto del Ministro della salute, su proposta dell’AIFA, possono essere previste, in ragione delle dimensioni e delle caratteristiche delle imprese, deroghe alle disposizioni previste dal precedente periodo.”
E’ evidente che, sebbene si faccia sempre riferimento ad un rapporto di lavoro, viene meno la dizione “univoco e a tempo pieno” caratteristica del lavoro subordinato e viene addirittura introdotta una deroga alla previsione di rapporto instaurato con unica impresa farmaceutica.
Il che presuppone la possibilità di stipula di diversi tipi di contratti e quindi l’instaurazione di diversi tipi di rapporti di lavoro.
La giurisprudenza apparentemente non ci è d’aiuto…
Una sentenza della Corte di Cassazione (19/08/1992 n.9676) addirittura parla di “attività di propaganda di medicinali” assimilando l’informatore medico scientifico al propagandista scientifico ed espressamente statuisce che “L’attività del propagandista di medicinali (definito anche propagandista scientifico o informatore medico-scientifico) può svolgersi sia nell’ambito del rapporto di lavoro autonomo che in quello del rapporto di lavoro subordinato, a seconda che la prestazione dell’attività, sostanzialmente identica in entrambi i casi, si caratterizzi – per le modalità del suo svolgimento, avendo le espressioni adoperate dalle parti valore solo indicativo – come mero risultato o come messa a disposizione di energie lavorative con l’inserzione del propagandista nell’organizzazione produttiva dell’imprenditore e l’assoggettamento alle disposizioni da questo impartite.”
Non è invero chiaro quale sarebbe la forma di lavoro autonomo, anche perché questa sentenza è anteriore alla Legge 541/92 che, come detto sopra, si riferiva ad un rapporto di lavoro a tempo pieno e la stessa sentenza stabilisce espressamente che “Dall’anzidetta attività – che (svolta in via autonoma o subordinata) consiste nel persuadere la potenziale clientela dell’opportunità dell’acquisto, informandola del prodotto e delle sue caratteristiche, ma senza promuovere (se non in via del tutto marginale) la conclusione di contratti – differisce l’attività dell’agente, il quale, nell’ambito di un’obbligazione non di mezzi ma di risultato, deve altresì pervenire alla promozione della conclusione dei contratti, essendo a questi direttamente connesso e commisurato il proprio compenso. “
Di fatto, escluso chiaramente che si tratti di rapporti di agenzia, rimane difficile inquadrare l’Informatore scientifico con contratto ENASARCO, che è invero l a cassa di previdenza degli agenti e dei rappresentanti di commercio.
Certo, l’introduzione della figura dell’ISF nell’Area funzionale Commerciale marketing/vendite del nuovo CCNL di categoria agevola non poco l’applicazione di questi contratti.
30/01/2010
REQUISITI DELL’INFORMATORE SCIENTIFICO DEL FARMACO
La professione di ISF ha subito nel corso degli ultimi 30 anni profondi mutamenti.
A seguito della Direttiva 92/28/CEE concernente la pubblicità dei medicinali per uso umano, è stato emanato il Decreto Legislativo 30.12.1992 n.541, entrato in vigore nel gennaio dell’anno successivo.
Viene, così, istituzionalizzato il ruolo dell’informazione scientifica in Italia e all’informatore viene affidato il delicato compito di pubblicizzare al “medico” le caratteristiche del farmaco che rappresenta, e che l’azienda farmaceutica da cui dipende intende commercializzare.
E’, ormai, chiaro quindi che l’informatore scientifico è l’unico interlocutore intermediario tra l’impresa produttrice e il sanitario.
La legge richiede il possesso di diploma di laurea medicina e chirurgia, scienze biologiche, chimica con indirizzo organico o biologico, farmacia, chimica e tecnologia farmaceutiche.
In un’ottica di evoluzione scientifica, la legge prevede anche che “il Ministro della sanità può, con decreto, riconoscere come idonei, ai fini del presente articolo, altri diplomi di laurea o altri diplomi di livello universitario.”
La norma fa, tuttavia, salve “le situazioni regolarmente in atto alla data di entrata in vigore del presente decreto”.
Ciò in quanto è principio generale del nostro ordinamento giuridico che le leggi non possano che disporre per l’avvenire e non possono incidere su diritti acquisiti, sicchè un informatore, che esercitava prima del 1993, può continuare nell’esercizio di tale attività, anche se in possesso di solo diploma di istruzione secondaria o di altra laurea non riconosciuta idonea.
Considerato, però, l’importante ruolo riconosciuto all’informazione scientifica con tale legge, il legislatore impone che le imprese farmaceutiche impartiscano all’informatore “una formazione adeguata, così da risultare in possesso di sufficienti conoscenze scientifiche per fornire informazioni precise e quanto più complete sui medicinali presentati.”
La qualificazione dell’informatore scientifico deve essere, infatti, tale da consentirgli di interloquire efficacemente con il sanitario a cui rappresenta il farmaco, perché gli informatori “devono riferire al servizio scientifico di cui all’art. 14, dal quale dipendono, tutte le informazioni sugli effetti secondari dei farmaci, allegando, ove possibile, copia delle schede di segnalazione utilizzate dal medico ai sensi dell’art. 1 del decreto del Presidente della Repubblica 25 gennaio 1991, n. 93”.
La parola “devono” non dà spazio ad alcuna interpretazione.
Succedono diversi decreti ministeriali, che riconoscono come idonei all’esercizio dell’informazione scientifica altri titoli, finchè interviene nuovamente la CEE con nuove direttive concernenti i medicinali per uso umano e codice etico (2001/83/CEE e succ. ) e la direttiva 2003/04/CEE, alle quali l’Italia si adegua con ritardo con il Decreto Legislativo 24.04.2006 n.219.
All’art.122 viene riformulato il contenuto dell’attività degli informatori scientifici e adeguati i requisiti necessari.
La prima novità è che l’informazione scientifica è rivolta anche ai farmacisti.
Nell’articolo viene poi ripresa la vecchia formulazione del “fatte salve le situazioni regolarmente in atto alla data di entrata in vigore del presente decreto” e vengono, quindi, riconosciuti come idonei titoli di studio, altre lauree o diplomi specialistici.
Tuttavia, si chiarisce subito che l’art.122 non riapre sanatorie totali sul possesso dei requisiti dell’informatore scientifico, ma si riferisce sempre a quelle già sanate con la legge 541/1992.
Una diversa interpretazione porterebbe all’assurda conclusione che il legislatore avrebbe consentito ufficialmente la violazione del DLgs 541/92. Il legislatore, invece, continua a salvaguardare chi, prima dell’entrata in vigore del suddetto DLgs 541/92, aveva legittimamente esercitato l’attività di informazione scientifica del farmaco.
Ad oggi, fatte salve le situazioni già in atto fino al 1992, l’informatore scientifico deve possedere una delle seguenti lauree:
a) laurea in scienze naturali, di cui alla legge 19 novembre 1990, n. 341;
b) tutti i corsi di laurea specialistica, di cui ai decreto del Ministro dell’università e della ricerca scientifica e tecnologica 3 novembre 1999, n. 509, o di laurea magistrale, di cui al decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca 22 ottobre 2004, n. 270, appartenenti alle classi:
1) classe 9/S – Classe delle lauree specialistiche in biotecnologie mediche, veterinarie e farmaceutiche;
2) classe 68/S – Classe delle lauree specialistiche in scienze della natura;
c) tutti i corsi di laurea, di cui al decreto del Ministro dell’università e della ricerca scientifica e tecnologica 3 novembre 1999, n. 509 e al decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca 22 ottobre 2004, n. 270, appartenenti alle classi sottospecificate, a condizione che siano stati superati gli esami di farmacologia, patologia, tossicologia, chimica farmaceutica e tossicologica, tecnologia e legislazione farmaceutica.
1) classe 1 – Classe delle lauree in biotecnologie
2) classe 24 – Classe delle lauree in scienze e tecnologie farmaceutiche.
Permane, infine, l’obbligo di riferire sugli effetti dei farmaci al servizio scientifico e al responsabile del servizio di farmacovigilanza dell’impresa farmaceutica da cui dipendono.
16/12/2009
LA CESSIONE DEL RAMO D’AZIENDA VISTA DALLA PARTE DELL’ISF
Complice la contrazione della spesa farmaceutica e il proliferare dei generici, le grandi case farmaceutiche hanno deciso di far quadrare i bilanci a modo loro … tagliando teste.Da un paio d’anni si è, infatti, assistito ad uno snellimento sostanzioso delle file degli informatori scientifici all’interno di grandi aziende.
Inutile dire che se la legge italiana è oggi (o così si dice) a favore del lavoratore, è pur vero che fatta la legge, trovato l’inganno…
Tante le possibili strade da intraprendere per i licenziamenti di massa, per lo più una quella seguita: la cessione dei rapporti di lavoro da un’azienda ad un’altra, normalmente di servizi, che serva da contenitore più o meno capiente per i malcapitati.
La cessione avviene formalmente mediante una cessione del ramo d’azienda che, ai sensi della legislazione vigente (art.2112 c.c.) comporta, tra l’altro, anche la cessione di tutti i rapporti di lavoro.
L’articolo 2112 del codice civile intende per trasferimento d’azienda “qualsiasi operazione che, in seguito a cessione contrattuale o fusione, comporti il mutamento nella titolarità di un’attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base del quale il trasferimento è attuato ivi compresi l’usufrutto o l’affitto di azienda” e per ramo d’azienda il trasferimento di parte dell’azienda “intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento”.L’articolo 2112 c.c. dispone ancora che, in caso di trasferimento d’azienda, il rapporto di lavoro continua con il cessionario (l’azienda acquirente) ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano.
E cioè, una volta realizzatosi il trasferimento di azienda, i rapporti di lavoro preesistenti al trasferimento proseguono con il nuovo titolare senza necessità del consenso da parte dei lavoratori, con l’effetto che ogni lavoratore può far valere nei confronti del nuovo titolare i diritti maturati in precedenza ed esercitabili nei confronti del cedente (Cassazione civile, sez. lav., 07 dicembre 2006, n. 26215).
L’articolo dispone invero che entrambe le aziende (cedente e cessionaria) siano obbligate, in solido, per tutti i crediti che il lavoratore aveva al tempo del trasferimento.
Tuttavia, la legge acconsente a che il lavoratore mediante le procedure previste in caso di accordo in materia di lavoro (e quindi con intervento dei sindacati o dell’ufficio del lavoro) liberi la cedente dalle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro.
Questa, che apparentemente sembra una clausola di eccezione alla norma, è di fatto la regola.
Infatti, normalmente avviene (ed è avvenuto) che i vertici aziendali trovino un accordo con i sindacati (che alla fine non rappresentano solo i lavoratori uscenti ma tutti) e così i lavoratori si ritrovano, dal canto loro, a liberare l’azienda cedente (che è in genere la più solvibile) a fronte di un lavoro apparentemente certo e in un’impresa meno solida.
Inoltre, se è vero che la cessionaria è tenuta ad applicare i trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi vigenti alla data del trasferimento (salvo che siano sostituiti da altri contratti collettivi applicabili all’impresa del cessionario) è pur vero che la stessa non è obbligata alla continuazione dell’esercizio del ramo d’azienda acquisito, con la paradossale conseguenza che la giurisprudenza non ha ritenuto “in frode alla legge, né concluso per motivo illecito … il contratto di cessione dell’azienda a soggetto che, per le sue caratteristiche imprenditoriali e in base alle circostanze del caso concreto, renda probabile la cessazione dell’attività produttiva e dei rapporti di lavoro” (Cassazione civile , sez. lav., 16 ottobre 2006, n. 22125).
Il che vuol dire che l’azienda che acquista il ramo può cessare l’attività anche il mese seguente, senza dover dar conto a nessun lavoratore….
Una piccola tutela a favore del lavoratore è in tal senso dettata dalla Direttiva 12/3/2001 n.23 01/23/CE (Direttiva del Consiglio concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti) che dispone che se il contratto di lavoro o il rapporto di lavoro è risolto in quanto il trasferimento comporta a scapito del lavoratore una sostanziale modifica delle condizioni di lavoro, la risoluzione del contratto di lavoro o del rapporto di lavoro è considerata come dovuta alla responsabilità del datore di lavoro.
La disposizione è tuttavia di difficile applicazione.
Normalmente, quando un’azienda di grosse dimensioni – come quelle farmaceutiche – decide per il trasferimento di un ramo d’azienda, rimangono coinvolti molti lavoratori.
A tal fine, l’articolo 47 L.428/90 (e successive modificazioni) espressamente prevede che in caso di trasferimenti d’azienda o parte di essi in cui sono complessivamente occupati più di 15 lavoratori, l’azienda debba esperire determinate procedure di consultazione dei sindacati di categoria al fine di tutelare la sicurezza occupazionale.
Ma in questi anni, a fronte di un’acquisizione di potere sempre più forte dei sindacati, si è assistito ad una tutela dei lavoratori interessati sempre meno efficace e l’imposizione dell’intervento sindacale effettuata dal legislatore è di fatto servita all’accrescimento politico del potere sindacale, ma si è rivelata un handicap per il singolo lavoratore, che ha visto trattare la propria posizione esclusivamente come un numero, senza alcun riguardo alla propria storia personale, impossibilitato a far valere le proprie ragioni a fronte di un più o meno corretto esperimento di procedure prefissate dalla legge.
Non è, invece, riconducibile alla nozione di cessione di azienda il contratto con il quale viene realizzata la c.d. “esternalizzazione” dei servizi, ove questi non integrino un ramo o parte di azienda nei sensi suindicati: in tali casi “la vicenda traslativa, sul piano dei rapporti di lavoro, va qualificata come cessione dei relativi contratti, che richiede per il suo perfezionamento il consenso del lavoratore ceduto” (Cassazione civile , sez. lav., 16 ottobre 2006, n. 22125).
Tale escamotage è in genere accompagnato da un contratto di co-promotion tra l’azienda cedente e l’azienda cessionaria dei contratti di lavoro.
La co-promotion si ha quando la promozione (informazione scientifica, presentazione, pubblicità e vendita) per uno stesso medicinale, con uno stesso marchio, viene effettuata contemporaneamente da due aziende, di cui una è la titolare della autorizzazione alla immissione in commercio.
In tal modo l’azienda non cede il ramo, ma, di fatto, licenzia tutti quelli che ci lavorano con il bene placido degli stessi.
In tali casi, normalmente l’azienda cedente sottopone al lavoratore un piccolo bonus e un’offerta di un nuovo lavoro, stabile o meno che sia, sì da ottenere un consenso alla cessione, ma anche una vera e propria liberatoria dal lavoratore per qualunque pretesa inerente al rapporto di lavoro intercorso.
In genere, il lavoratore, pur di evitare la mobilità, specie in zone in cui la disoccupazione è imperante, come per esempio il Mezzogiorno, preferisce acconsentire al passaggio nella nuova azienda, liberando la vecchia azienda da qualunque onere maturato e non corrisposto.
Se va bene, il lavoratore ha un nuovo posto di lavoro, se va male non potrà più rivalersi sulla vecchia azienda.
22/10/2009
L’ISF HA UN ORARIO DI LAVORO? IL PARERE DEL NOSTRO LEGALE AVV. MARIA RITA FAMA’
La norma fa espresso riferimento ad un serie di lavoratori che, a causa dell’attività esercitata, non hanno un orario predeterminato dall’azienda, perché l’orario viene determinato di volta in volta dal lavoratore stesso. Il che vuol dire che l’azienda non può interferire sull’attività di tale lavor
L’ISF ha un orario di lavoro?
Nel nostro ordinamento giuridico, il DLgs 66/03 demanda a i Contratti Collettivi Nazionali Lavoro la definizione dell’orario medio di lavoro, che, tuttavia, non può superare le 48 ore settimanali, comprese le ore di lavoro straordinario, in riferimento ad un periodo di lavoro non superiore a quattro mesi.
Il CCNL Industria chimica e chimica farmaceutica, applicabile all’Informatore Scientifico del Farmaco, all’Art. 8 ( Orario di lavoro) prevede tra l’altro che la durata media dell’orario di lavoro, comprese le ore di lavoro straordinario, non può superare il limite di 48 ore calcolate come media, considerate le esigenze tecnico-organizzative settoriali su un periodo di 12 mesi.
Prevede, altresì, che gli organici debbano essere dimensionati alle effettive esigenze di produzione, delle sedi lavorative e di sicurezza degli impianti in modo da realizzare la rigorosa attuazione dell’orario contrattuale di lavoro, consentendo il godimento delle ferie, delle festività, dei riposi spettanti, tenendo altresì conto dell’assenteismo medio per morbilità, infortuni ed altre assenze.
E’ convenuto, ancora, che è da considerarsi eccedente la prestazione fornita oltre l’orario di lavoro settimanale medio determinato in 247,5 giornate lavorative annue, assunte pari a otto ore giornaliere, al lordo delle festività e delle ferie.
L’orario di lavoro medio settimanale è di 37 ore e 45 minuti.
Le prestazioni eccedenti l’orario di lavoro settimanale medio e quelle straordinarie sono compensate, nel mese di competenza, con le maggiorazioni retributive previste dal CCNL, con una delle seguenti opzioni:
-50% di quote orarie retributive e 50% di riposi compensativi
-100% di riposi compensativi
-100% di quote orarie retributive
E’ previsto, ancora, che il ricorso a prestazioni eccedenti o straordinarie debba avere carattere eccezionale e debba trovare obiettiva giustificazione in necessità imprescindibili, indifferibili, di durata temporanea e tali da non ammettere correlativi dimensionamenti di organico.
E’ stabilito, tuttavia, che “ In relazione a quanto previsto all’articolo 16, commi 1 e 2 del D.Lgs. n. 66/2003 si conviene che i lavoratori esterni, in quanto assimilabili ai commessi viaggiatori o piazzisti, sono ricompresi nel trattamento di deroga alla disciplina della durata settimanale dell’orario.
Si conviene inoltre di assimilare questi lavoratori al personale di cui al comma 5 dell’articolo 17 del D.Lgs, n. 66/2003 per quanto riguarda la non applicazione delle disposizioni degli articoli 3, 4, 5, 7, 8, 12, 13 (relative, tra l’altro, a orario di lavoro, lavoro straordinario, riposo giornaliero, pause).”
Sembrerebbe, dunque, dal tenore della disposizione che l’ISF non abbia alcun orario e, che quindi, come ormai accade nella maggioranza dei casi, sia costretto a lavorare fino a tarda sera senza alcun riconoscimento di straordinario.
Persino l’INAIL, ai fini assicurativi, considera qualsiasi incidente accaduto all’ISF come avvenuto durante lo svolgimento della propria attività lavorativa (e ciò a prescindere di dove sia accaduto).
Invero, l’art.16 D.lgs 66/03 sopra richiamato introduce sì delle deroghe alla disciplina dell’orario di lavoro, ma che tuttavia sono tassative e cioè non ammettono applicazioni analogiche, non possono cioè essere applicate se non ai casi ivi considerati.
L’ISF non è menzionato e, pertanto, il riferimento operato dal CCNL è, ad avviso dello scrivente, nullo per contrarietà a norma imperativa.
Il successivo articolo 17 Dlgs 66/03 pure richiamato dal CCNL deroga alla disciplina in materia di riposo giornaliero, pause, lavoro notturno, durata massima settimanale, secondo cui appunto tali disposizioni possono essere derogate mediante stipula dei CCNL.
Ora le deroghe stabilite dai CCNL possono solo essere migliorative e non peggiorative delle norme giuslavoristiche,
Il comma 5 (richiamato dal CCNL) espressamente prevede infatti che “Nel rispetto dei principi generali della protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori, le disposizioni di cui agli articoli 3, 4, 5, 7, 8, 12 e 13 non si applicano ai lavoratori la cui durata dell’orario di lavoro, a causa delle caratteristiche dell’attività esercitata, non è misurata o predeterminata o può essere determinata dai lavoratori stessi e, in particolare, quando si tratta:
a) di dirigenti, di personale direttivo delle aziende o di altre persone aventi potere di decisione autonomo;
b) di manodopera familiare;
c) di lavoratori nel settore liturgico delle chiese e delle comunità religiose;
d) di prestazioni rese nell’ambito di rapporti di lavoro a domicilio e di telelavoro”
Non mi pare che l’ISF rientri in nessuna lettera suddetta.
Si tenga poi presente che la norma intende essere di favore e non di sfavore per il lavoratore, posto che è dettata per la tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori.
Ne consegue che a tali lavoratori andrebbe applicata una disciplina di maggiore favore.
Non solo.
La norma fa espresso riferimento ad un serie di lavoratori che, a causa dell’attività esercitata, non hanno un orario predeterminato dall’azienda, perché l’orario viene determinato di volta in volta dal lavoratore. Il che vuol dire che l’azienda non può interferire sull’attività di tale lavoratore, non può, cioè pretendere media visite giornaliere, non può pretendere il rapporto giornaliero, né imporre i propri ritmi.
Recente giurisprudenza (Civile, Sez. Lavoro, 29 aprile 2004, n.8247) ha, peraltro, da ultimo statuito che, ai fini dell’esclusione dell’applicazione dei limiti legali di orario di lavoro, vanno considerate le attività dei commessi viaggiatori e piazzisti che svolgano la loro opera viaggiando di luogo in luogo, con prestazioni caratterizzate da un ampio margine di autonomia nella determinazione ed organizzazione del proprio tempo di lavoro, in assenza di un controllo da parte del datore circa le modalità temporali della prestazione. Ne consegue che l’incarico di svolgere compiti ulteriori rispetto alla attività tipica comporta il venir meno del presupposto stesso della deroga, se, incidendo concretamente sull’estensione temporale della prestazione lavorativa e sull’intervento di controllo della stessa da parte del datore di lavoro, escluda di fatto la possibilità per il dipendente di organizzare autonomamente, nel senso indicato, il proprio tempo di lavoro.
Allora, delle due l’una:
1) o l’ISF è autonomo nella gestione della Sua attività lavorativa, e l’azienda non può effettuare controlli sulla gestione del lavoro, non può imporre media visite, né orari determinati per lo svolgimento della propria attività, e allora rientra nell’art.17 Dlgs 66/03, e non è soggetto alla disciplina sull’orario di lavoro;
2) o non lo è, e allora l’azienda può assoggettare a controllo l’attività dell’ISF e pretendere precisi adempimenti, ma in tal caso l’ISF non rientra nell’art.17 Dlgs 66/03, ed è soggetto alla disciplina dell’orario di lavoro come tutti gli altri dipendenti,quindi con riconoscimento di straordinario e di recuperi singolarmente considerati, e non, come oggi accade, con recupero dei 15 minuti di riduzione di orario di lavoro (R.O.L) calendarizzati in giornate o ore di recupero.
Maria Rita Famà avvocato in Milano