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L’enorme dipendenza europea dalla fabbrica dei farmaci asiatica. Perché è così difficile rimpatriare la produzione

Il coronavirus ha spezzato alcune delle catene di valore su cui si basa il commercio internazionale e la globalizzazione. La chiusura della fabbrica del mondo cinese provocata dalle misure di lockdown ha avuto un forte impatto sull’economia mondiale, spingendo molti analisti a riflettere sulla necessità di riportare a casa alcune produzioni che l’Occidente ha deciso di lasciare alle fabbriche asiatiche. Sono diversi i settori investiti dalla delocalizzazione: dalla meccanica all’elettronica, fino ai dispositivi di protezione personale che oggi il covid-19 ha reso di prioritario interesse nazionale. Una tendenza che riguarda anche i medicinali, visto che l’Europa dipende sempre più dalle forniture di principi attivi e farmaci generici di Cina e India. Ma il reshoring è davvero molto complicato: “Ci vuole tempo e soprattutto tanti investimenti. Ma poi chi ci assicura che sarà un’operazione profittevole?”, dice a Business Insider Italia Fabrizio Gianfrate, esperto di economia sanitaria e già professore all’Università di Ferrara.

Sulla necessità di rimpatriare alcune produzioni in Europa si era tornato a parlare circa un mese fa, quando l’India aveva deciso di interrompere l’esportazione di ben 26 principi attivi, tra cui paracetamolo e antibiotici, come metronidazolo e tinidazolo. Il paese asiatico è infatti il principale fornitore al mondo di medicine generiche, ma rimedia il 70 per cento dei principi attivi dalla Cina. Lo stop degli impianti cinesi aveva compromesso la regolarità degli approvvigionamenti, al punto che sul vecchio continente e negli Stati Uniti non sono mancate preoccupazioni per possibili carenze di medicinali.

Ma la soluzione del reshoring della produzione presenta diversi ostacoli. Non è certo un caso che i due giganti asiatici abbiano conquistato gradualmente una significativa quota di mercato mondiale. “La globalizzazione, con la libera circolazione di merci e capitali, ha favorito lo spostamento di alcune attività nelle parti del mondo che offrono condizioni economiche più vantaggiose. E questo vale anche per il comparto dei farmaci”, spiega Fabrizio Gianfrate, che continua: “Il basso costo della manodopera e delle materie prime ha innescato una continua esternalizzazione di alcune produzioni, soprattutto in posti come India e Cina dotate di strutture adeguate per produrre quantità enormi di merci con qualità accettabile, certificati da enti internazionali e autorità regolatrici”. Oltre ai costi inferiori per l’avviamento dei laboratori e per il personale, le aziende cinesi hanno inoltre potuto contare sull’appoggio statale, che si è manifestato sotto forma di generosi sussidi pubblici e sgravi fiscali.

Nonostante l’ascesa di India e Cina come principali fornitori del vecchio continente, il nostro paese ha conservato una quota di mercato importante. “Il comparto chimico farmaceutico della penisola gode di un’ottima reputazione a livello internazionale, grazie alla quantità e qualità delle sue produzioni”, fa notare l’esperto, sottolineando che questo consolidamento ha anche una spiegazione storica: “L’Italia è stato uno dei paesi industrializzati ad aver approvato più tardi rispetto ad altri la legge sui brevetti, che arriva da noi solo alla fine degli anni ottanta (negli Stati Uniti invece era già in vigore all’inizio del Novecento). Di conseguenza, fino a circa 40 anni fa, le imprese potevano produrre farmaci ideati e sviluppati da altri. La conseguenza è stata che il nostro modello industriale è andato nella direzione di migliorare la qualità. Senza dimenticare le eccellenze universitarie, i laboratori e gli ottimi tecnici che contribuiscono a questo riconoscimento internazionale”.

Inoltre, se è vero che la Cina e l’India hanno scalato velocemente le posizioni verso la leadership, lo hanno fatto soprattutto nella produzione dei farmaci tradizionali, quelli realizzati attraversi sintesi chimica. “Il processo produttivo è meno elaborato rispetto a quello necessario per realizzare farmaci biologici, che richiedono tecniche e tecnologie più sofisticate, quindi meno adatti per le produzioni in grandi quantità e a costi più bassi proprie di Cina e India, ma anche di altre paesi che li stanno inseguendo, come Vietnam e Brasile“, precisa Gianfrate.

Al netto delle difficoltà segnalate, però, riportare in Europa alcune produzioni non è impossibile secondo l’esperto. Anzi non mancano gli incentivi: “Significa aprire nuovi impianti, far lavorare le forze locali e muovere le economie all’interno dei confini nazionali. Certo il rischio c’è sempre che l’operazione possa risultare alla fine non conveniente. Ma il nostro paese può vantare un know how e diverse eccellenze – penso a Menarini, Chiesi, Recordati – che potrebbero contribuire al rimpatrio di alcuni cicli produttivi”, conclude l’esperto.

Notizie correlate: The “irresponsible” reliance of European Big pharma on China

UE. Note to the Pharmaceutical Committee updating on the actions undertaken with regard to the quality of Active Pharmaceutical Ingredients (API)

 

Redazione Fedaisf

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