Se il Jobs Act incoraggia il mobbing

La recente riforma, eliminando ogni vincolo ai licenziamenti, può spingere gli imprenditori a usare ogni mezzo per liberarsi di manodopera scomoda, per esempio scegliendo di “risolvere” rapporti più costosi per favorire l’ingresso di precari

di Lisa Bartoli, Esperienze 07 aprile 2017 – rassegna.it

Lasciato per più di un anno inattivo, senza compiti, isolato, privo di scrivania e di un ufficio, costretto a sostare in piedi lungo il corridoio, poi spostato al cimitero, come sede di lavoro, per lo svolgimento delle pratiche. Ce n’è abbastanza per la Corte di Cassazione per stabilire l’esistenza di un comportamento persecutorio da parte del datore di lavoro, da configurarsi come mobbing e di conseguenza per condannare un Comune calabrese al pagamento del danno biologico, a titolo di risarcimento, in favore di un dipendente della polizia municipale. La sentenza n. 2142 del 27 gennaio è l’ultima, in ordine di tempo, in tema di mobbing, ma non ce ne sono molte altre dello stesso segno.

Difficile è dimostrare l’intento persecutorio del datore di lavoro, base necessaria per il riconoscimento di comportamento mobbizzante, quasi impossibile quando mancano riferimenti legislativi certi, in grado di definirlo. “In Italia, manca una normativa specifica – ha spiegato il giuslavorista Francesco Bronzini, in occasione di un corso di formazione per giornalisti – e quindi le interpretazioni sono varie e a volte generano fraintendimenti. Spesso il mobbing si confonde con il demansionamento e la marginalizzazione, ma non è così. A questi elementi bisogna aggiungerne degli altri, indispensabili per poterlo configurare”. Sette sono i parametri da tenere presenti: primo è, innanzitutto, che la condotta persecutoria si verifichi sul posto di lavoro; che sia frequente e abbia una durata di almeno sei mesi; che si possa dimostrare di aver subito attacchi frontali, isolamento, demansionamento, attacchi alla reputazione, violenza, anche fisica, e minacce, in un crescendo persecutorio che duri nel tempo. In più c’è da aggiungere che l’onere probatorio è totalmente a carico del lavoratore mobbizzato, che potrà ricorrere anche alle testimonianze dei colleghi, i quali però potrebbero essere poco propensi ad agire, com’è facile immaginare, per paura di ritorsioni.

Un percorso davvero complicato, che evidentemente si riflette anche sulle scarse denunce inoltrate all’Inail: qualche centinaio, ogni anno, di cui però solo il 30 per cento viene accolto. “A complicare le cose – spiega Silvino Candeloro, del collegio di presidenza Inca –, si è aggiunto il Jobs Act che, eliminando ogni vincolo ai licenziamenti, incoraggia i datori di lavoro ad usare ogni mezzo per liberarsi di manodopera scomoda, per esempio, scegliendo di ‘risolvere’ rapporti di lavoro più costosi per favorire l’ingresso di persone con contratti più precari”. Una lettura più attenta dell’inquietante aumento dei licenziamenti cosiddetti disciplinari dell’ultimo anno, insieme al ricorso crescente a forme di lavoro precario, potrebbe rivelare un fenomeno molto più esteso di stress lavoro correlato che nel mobbing trova la sua espressione massima. Solo nel 2016, secondo l’Osservatorio sulla precarietà dell’Inps, i licenziamenti disciplinari nelle aziende con più di 15 dipendenti sono aumentati del 31%, passando dai 24.595 del 2015 ai 32.232 dello scorso anno. “Cosa ci sia dietro il termine ‘disciplinare’ è facile intuirlo, ma molto difficile dimostrarlo”, commenta ancora Candeloro.

In questo vuoto normativo, non può stupire come anche la giustizia mostri un orientamento altalenante, muovendosi tra il rispetto dell’articolo 2087 del codice civile, che stabilisce l’obbligo dell’imprenditore di adottare le misure necessarie a “tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore” e una serie di norme specifiche sullo stalking, sulle molestie sessuali, fino a comprendere l’articolo 2103 del codice civile sul demansionamento, su cui le ricadute della nuova normativa sui licenziamenti, introdotta dal Jobs Act, si sentono di più.

Ecco un riassunto delle principali sentenze emesse, ricordate nel volume “Dal mobbing al disagio allo stress correlati al lavoro, a cura di Fernando Cecchini (Nep edizioni), mostra come sia difficile trovare una linearità di orientamento giurisprudenziale:

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