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ITALIA ADDIO, L’ESODO DELLE MULTINAZIONALI DEL FARMACO

I bassi finanziamenti alla ricerca, la nuova geografia della produzione, una serie di problemi connessi alla scadenza dei brevetti su molti farmaci preparati nel nostro paese, provocano il taglio di migliaia di posti di lavoro e la chiusura di una serie di fabbriche di multinazionali del settore

Roma Nella nuova stagione di agitazioni sindacali le manifestazioni delle tute blu sono solo uno sbiadito ricordo perché oggi fuori dai cancelli ci sono i ricercatori in camice bianco: tra il 2007 e il 2008 gli organici aziendali dei gruppi farmaceutici italiani, in gran parte filiazioni di multinazionali americane, sono stati ridotti di 3.700 unità e le stime per il prossimo biennio parlano di altri 4-5.000 tagli. Un problema che non nasce nelle piccole aziende, ma negli stabilimenti dei grandi colossi, dove il peso della concorrenza internazionale è ancora più soffocante. Pfizer e Abbot, Janssen e Wyeth, Gambro e Recordati, sono solo alcuni dei gruppi che denunciano segnali di crisi. Il caso più eclatante è la Pfizer, primo gruppo mondiale, presente in Italia dal 1955 e oggi pronto a vendere il suo stabilimento di Latina, attivo da 51 anni. Secondo fonti aziendali procede a ritmi serrati il confronto con i potenziali acquirenti al fine di concludere la vendita entro il dicembre di quest’anno. La Pfizer ha assicurato che manterrà parte della sua produzione nello stabilimento, affidandola ai nuovi proprietari e ha comunque confermato un investimento di 13 milioni di euro nello storico sito produttivo di Sermoneta. Un destino simile è quello che ha colpito la Gambro, azienda leader nella produzione di macchinari per dialisi che ha venduto uno dei suoi stabilimenti alla Scm di Claudio Meli, società di Cisterna che commercializza prodotti alimentari. A seguito dell’accordo i 73 dipendenti della multinazionale saranno reintegrati, dopo 24 mesi di cassintegrazione, ma dovranno dire addio alle loro competenze. Ancora più recente è la scelta della Janssen-Cilag (di proprietà della Johnson&Johnson) di avviare una procedura di mobilità per 65 lavoratori del suo sito produttivo, uno dei più moderni e innovativi al mondo. In questo caso l’esubero riguarda in particolare il reparto Medical Device, le cui produzioni sono state trasferite in Irlanda. E proprio il caso irlandese, dove il peso della tassazione è di gran lunga inferiore rispetto all’Italia, offre frecce appuntite non solo al sindacato ma anche a Farmindustria. «L’assenza di una fiscalità sensibile alle condizioni presenti in mercati più competitivi del nostro – spiega Sergio Dompè, presidente dell’associazione di categoria – è solo una delle cause di una crisi che si è fortemente acuita negli ultimi 6-7 anni. A questa si aggiunge la discriminazione che le aziende in Italia pagano dal punto di vista dei prezzi concordati affinché un farmaco rientri nella fascia A. Mentre il costo medio annuale di farmaci per cittadino in Europa è pari a 270 euro e in Francia tocca i 320, in Italia questa soglia scende sotto i 200 euro». Ma quello dei prezzi è solo un pezzo di un puzzle complesso che, una volta composto, disegna panorami controversi. Uno di questi riguarda la scadenza dei brevetti. Una fonte interna al settore confessa che l’industria farmaceutica attualmente non è pronta a immettere sul mercato nuovi farmaci in grado di rilanciare i profitti, e la prossima uscita dalla copertura brevettuale di molti medicinali avrà come conseguenza una perdita drastica di ingenti quote di fatturato. Qualcosa di simile sta succedendo alla Wyeth, la multinazionale del Polase e del Multicentrum, che di qui a breve vedrà scadere il brevetto del suo antidepressivo Efexor, uno dei suoi farmaci di punta. Proprio in questi giorni il presidente della divisione italiana, Matthieu Simone, è negli Stati

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