Industria 4.0, una sigla di cui si sta discutendo molto, ormai utilizzata come sinonimo di cambiamento e modernità. È associata a quella che gli esperti definiscono “quarta rivoluzione industriale”.
CORRIERE DELLA SERA |23 LUGLIO 2017 | di Alessio Pappagallo
Dopo l’avvento della macchina a vapore e dell’elettricità, fino all’elettronica e all’automazione industriale, oggi il mondo dell’impresa si sta affacciando a una nuova era fatta di macchine intelligenti che, grazie all’informatizzazione, sono in grado di interagire tra loro, aumentando i volumi e la qualità dei processi produttivi e distributivi.
«Non parliamo esclusivamente di trasporto tramite droni o di magazzini super automatizzati, ma dell’introduzione del concetto di “internet delle cose”, la vera base di questo cambiamento – spiega al Corriere.it Fabrizio Dallari, direttore del Centro sulle Operations, la Logistica e il Supply Chain Management della LIUC Business School (LIUC, Università Cattaneo) -. Si tratta dell’espressione utilizzata per definire la rete di apparecchiature, diverse dai computer, connessi a Internet. Qualunque dispositivo elettronico equipaggiato con un software che gli permetta di scambiare dati con altri oggetti connessi. Nel 4.0 le parole chiave sono big data, informazioni e internet diffuso».
Una rivoluzione a cui hanno già preso parte, in Italia come all’estero, altri settori industriali (auto e elettrodomestici), ma che vede un certo ritardo per il farmaceutico; un comparto tra i più rilevanti in Italia in termini economici, occupazionali e sociali.
«La sanità, l’industria farmaceutica e tutta la filiera sono e saranno sempre più influenzate dalla quarta rivoluzione industriale. L’allungamento della vita media e la necessità di convivere con malattie croniche si accompagnano a due fattori determinanti. Da un lato contenere la spesa e dall’altro gestire il fenomeno definito “silver is gold”, ovvero la presenza di generazioni di persone (i nati dagli anni 60 in poi) che hanno una sempre maggiore familiarità con i digital devices e che saranno i pazienti del prossimo futuro – afferma Stefano Novaresi, già Top Manager di gruppi nazionali e internazionali della pharma distribuzione, oggi Senior Consultant presso un gruppo leader nell’automazione e uno dei massimi esperti in materia di 4.0 –. La farmaceutica rappresenta mediamente solo il 15% della spesa sanitaria, la sfida principale è ridurre le ospedalizzazioni non necessarie, il vero costo. In tal senso, il cambio di paradigma che deve vedere il paziente al centro è supportato dal 4.0, dove il combinarsi di nuove tecnologie con lo sviluppo di una sensoristica sofisticata e miniaturizzata consente di affrontare in modo nuovo sia la diagnostica che la terapia stessa. Questo, garantisce gradi di aderenza maggiori. Spesso, infatti, i pazienti non seguono correttamente la terapia con conseguenze che aggravano la loro condizione inducendo ospedalizzazioni inutili. Un problema che, grazie alle nuove tecnologie e alla sempre più rapida elaborazione delle informazioni, è già possibile risolvere, rendendo i protocolli di cura più efficaci».
Numerose le sfide che i soggetti della filiera dovranno affrontare, a partire dalle nuove regole per la conservazione e il trasporto dei medicinali e la serializzazione delle singole confezioni dei farmaci, previste dalla Direttiva europea 2011/62/UE, a cui sarà necessario adeguarsi entro la fine del 2018.
«In Europa la nuova normativa imporrà che tutte le confezioni siano marcate con un codice a barre univoco che mostri il produttore, il lotto, la data di scadenza e tutti i passaggi compiuti dal farmaco – continua Dallari, autore di un recente studio dedicato alla filiera farmaceutica e al 4.0 –. Questo permetterà una tracciabilità totale. Fino al paziente che potrà comunicare al medico, tramite un’applicazione e inviando il codice a barre, qual è la confezione che ha in casa. In questo modo, il medico sarà in grado di controllare l’andamento e l’aderenza alla terapia e sapere quando prescrivergliene un’altra. Un elemento che, di fatto, aprirà le porte a un sistema di riordino automatico dei medicinali da parte delle farmacie. La serializzazione è stata introdotta proprio per controllare il percorso dei farmaci, combattendo così anche i traffici illeciti».
La filiera farmaceutica italiana – stando allo studio – è composta principalmente da cinque soggetti: i produttori, i depositari, i distributori intermedi, i trasportatori e i punti di consegna (principalmente farmacie e ospedali, ma anche grande distribuzione e parafarmacie per i medicinali che possono essere distribuiti in questi canali) oltre al Servizio sanitario nazionale. Una peculiarità data dalla differenza del ruolo tra depositario e distributore intermedio: il primo si occupa della distribuzione del farmaco per conto della casa farmaceutica, senza acquisirne la proprietà; il secondo compra all’ingrosso i medicinali per poi rivenderli alle farmacie entro 12 ore.
Per la farmaceutica, quindi, 4.0 significa informatica al servizio della qualità del prodotto e del paziente, ma anche rivoluzione a livello distributivo. Afferma ancora il professore: «Secondo i nostri studi, tra qualche anno tutte quelle farmacie con volumi tali da poter interagire direttamente con le aziende sorpasseranno i grossisti che, a loro volta, apriranno delle catene di farmacie. Ciò significa che le cooperative di piccoli farmacisti spariranno. Non vedremo più una farmacia ogni 3mila e 200 abitanti (in Germania ogni 8mila e in Danimarca ogni 10mila), ma grandi catene che controlleranno la vendita di 200 o più farmaci (scenario che necessiterà, nel caso, di una revisione del quadro normativo ndr)».
Dal punto di vista produttivo, invece, c’è un tema legato ai processi di esternalizzazione che hanno portato alla nascita di aziende cosiddette di Contract Manufacturing, ovvero demandate a realizzare prodotti farmaceutici o parti di composti più complessi sulla base di un contratto stipulato con i produttori Original Equipment Manufacturer.
«La rivoluzione 4.0 potrebbe far rivalutare il concetto di esternalizzazione, garantendo tempi di produzione minori e volumi più alti – continua il docente –. L’industria farmaceutica italiana vale moltissimo in termini di valore, parliamo di 181 aziende (associate a Farmindustria) con oltre 64mila addetti (90% laureati e diplomati), ma con volumi piuttosto ridotti, dove la robotica e l’automazione avanzata sono poco applicabili. Perciò,
Macchine 4.0 che da passive diventano attive: apprendono e si possono organizzare. Un principio che potrebbe portare a una riduzione del personale addetto alle catene di montaggio, ponendo un quesito etico non trascurabile.
«Più che una riduzione tout court della mano d’opera, sicuramente legata a aumenti importanti di produttività individuale – commenta ancora Novaresi – ciò che si sta verificando è un mutamento delle professioni e delle competenze in gioco. Il 4.0 porta a una rivoluzione delle professionalità e alla nascita di nuovi ruoli. Basti pensare come l’ingegneria sta entrando in ambito medico. Un incontro di culture non sempre facile, ma necessario. Peraltro, la storia insegna che a ogni rivoluzione industriale si accompagna un riassetto sociale. Ma la tecnologia non è un nemico da combattere».
Conclude Dallari: «Le macchine non sono antagoniste dell’uomo. In università abbiamo aperto una piccola fabbrica in cui i ragazzi si sfidano a montare i Calcio Balilla aiutati da dei robottini nelle diverse fasi di montaggio manuale. Ecco, in questo piccolo caso esiste una collaborazione virtuosa uomo-macchina. È naturale, poi, che se in uno stabilimento viene inserito un carrello teleguidato o un robot collaborativo antropomorfo, al loro fianco sarà necessario avere un ingegnere informatico, un analista di big data o un manutentore di robot esperto. Quindi, parlerei di mutamento delle professionalità, più che di eliminazione della parte umana».
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Redazionale
Nell’articolo si dice che industria 4.0 ad oggi, è appannaggio soprattutto dei settori automobilistico e “del bianco” (elettrodomestici). Nel farmaceutico, invece, i grandi investimenti sono rivolti a assemblaggio e distribuzione».
E ancora: «La rivoluzione 4.0 potrebbe far rivalutare il concetto di esternalizzazione, garantendo tempi di produzione minori e volumi più alti».
Nel farmaceutico si vuole pertanto prendere come modello l’industria automobilistica. In questo settore Il superamento del modello fordista (catena di montaggio) non avviene mediante la teorizzazione e applicazione di un nuovo modello, ma piuttosto come esito di una serie indipendente di trasformazioni adottate per rispondere alla crisi degli anni ’70.
A rendere possibili queste risposte fu la presenza di nuove condizioni, senza le quali queste trasformazioni non sarebbero state possibili. Esse infatti presuppongono:
- l’esistenza di un nuovo modello tecnologico che supporti una produzione flessibile (automazione programmabile) e soprattutto decentrata (reti di comunicazione)
- un processo globalizzazione economica, connesso a una maggior rapidità e economicità dei trasporti, che permetta sia di inseguire i fattori produttivi laddove si presentano nelle condizioni economiche migliori, sia di cogliere la domanda ovunque essa si presenti.
- un processo di privatizzazione (anche del rapporto di lavoro) quale può emergere solo da una nuova politica economica, essa stessa prodotto dell’imporsi di nuove ideologie (neoliberismo)
All’idea di una governabilità politica del sistema economico mondiale si sostituisce l’idea del primato del mercato, e, contemporaneamente, come il criterio di misura della loro efficacia. Inizia conseguentemente la deregolamentazione (deregulation) di ogni forma di controllo sui flussi prima monetari e successivamente finanziari, degli investimenti e dei prodotti (e dei diritti).
La lotta contro il sindacato per la riduzione dei suoi spazi e del suo peso si accompagna a processi di ristrutturazione tecnologica e aziendale. Mediante i primi si punta alla riduzione del bisogno di manodopera all’interno dei processi produttivi (robotizzazione), indebolendola non solo numericamente ma anche come rilevanza produttiva (la minaccia della sua sostituzione). Mediante la seconda si persegue una frantumazione dell’azienda stessa, riducendo la compattezza della manodopera.
Negli anni ’80 le economie delle società occidentali usciranno trasformate dall’applicazione di questi nuovi principi e l’entrata nel postfordismo sarà un elemento acquisito.
Tra i molti concetti, la “flessibilità” è forse la parola chiave più caratterizzante. Alle innumerevoli rigidità del fordismo (nei compiti, nel processo di produzione, nella quantità e nella tipologia dei prodotti, nelle relazioni aziendali, etc.) il postfordismo sostituisce altrettante flessibilità:
- della manodopera, flessibile nelle mansioni come nella presenza;
- del prodotto, personalizzandolo grazie all’ampio ricorso a macchine programmabili in grado di modificare i processi di lavorazione e rendere economica la produzione per piccoli lotti;
- delle quantità produttive, grazie al ricorso al subappalto e alla manodopera impiegata a tempo determinato, che permettono di incrementare o decrementare la produzione con facilità.
La flessibilità diventa una filosofia pervasiva, che negli anni ’90 occupa non solo l’azienda, ma tutta la società, la cultura, perfino il modello educativo.
Se l’economia di scala non può più essere il modello attraverso cui garantire i profitti allora prioritaria è la riduzione dei costi. La complessa burocrazia aziendale generata tra i colletti bianchi, dalla gerarchizzazione e specializzazione funzionale della fabbrica fordista deve essere smantellata, così come progressivamente ridotto tutto il personale, e ridotti al minimo i costi fissi. Ma non solo l’apparato interno dell’azienda deve dimagrire, anche il corpo dell’azienda stessa, attraverso pratiche di outsorcing (esternizzazione: subappalti e rete di fornitori), limitando la produzione diretta al core-business, cioè quelle attività centrali dove maggiore è la sua specializzazione e quindi più alta la sua produttività e competitività.
Si costituisce un universo di lavori assai diversificati e flessibili. Lo scenario che vediamo è quello di una “società dei lavori”, parecchi dei quali flessibili o sfuggenti, anziché di una “società del Lavoro” centrata su un’idea e su un profilo di pienezza e di stabilità quale l’Occidente capitalistico e non solo aveva avuto nel secolo scorso con conseguenze che preoccupano i sindacati, come la “de-solidarizzazione”. I suoi sviluppi, resi necessari dalle trasformazioni dell’impresa sono resi possibili dalle innovazioni della tecnologia.
L’impresa cerca di raggiungere la massa dei consumatori inseguendo il singolo acquirente. All’impresa ciò crea notevoli incertezze e richiede una flessibilità, una reattività, una versatilità mai viste.
La necessità di rispondere a ogni oscillazione del mercato pone infatti all’impresa ineludibili bisogni di flessibilità operativa, costringendola a farsi leggera, agile e snella. Ciò ribalta la logica delle economie di scala e dell’integrazione verticale, tant’è vero che diminuisce la dimensione media dell’impresa per numero di addetti, aumenta la quota degli occupati nelle imprese minori sul totale, e il sistema delle imprese si sta disponendo e articolando in orizzontale. le imprese chiedono la massima flessibilità del lavoro e la massima deregolazione del mercato del lavoro.
Entro le stesse mura possono operare gomito a gomito lavoratori diretti e indiretti, stabili e fluttuanti, questa disarticolazione, chiamata anche “terziarizzazione”, ha conseguenze che preoccupano i sindacati perché possono generare disparità di trattamento fra lavoratori operanti nella stessa impresa o addirittura nella stessa sede.
Nel secolo scorso i sociologi studiavano l’oppressione dovuta alla monotonia e alla ripetitività, mentre adesso devono studiare l’ansia generata da variabilità e incertezze che stressano il lavoratore. Ieri il sintomo era la noia, oggi la frenesia. Ieri il problema era la rigidità, oggi la flessibilità.
I rapporti di lavoro tendono a diventare innanzitutto meno subordinati e più autonomi (perfino nel lavoro dipendente); inoltre meno durevoli, data la crescita dei contratti a tempo determinato e il calo quelli a tempo indeterminato; e infine meno uniformi giacché l’ambito dei contratti di lavoro si avvia a essere più circoscritto e assai più articolato, perfino individualizzato. L’impresa si è fatta flessibile e si aspetta che il lavoratore sia altrettanto flessibile. L’elasticità della prestazione al mercato si ottiene con modalità di impiego che intaccano il modello di lavoro a tempo pieno e a durata indeterminata perché prevedono orari variabili, durate più corte, o tutt’e due. La novità sta nel fatto che i contratti a termine stanno soppiantando il tradizionale periodo di prova per diventare la modalità normale di ingresso al lavoro.
Queste novità destabilizzano i tradizionali rapporti di lavoro e i sindacati temono che possano alterare gli equilibri contrattuali, travolgere i sistemi di relazioni industriali, indebolire i profili di tutela, disarticolare le solidarietà fra i lavoratori. Uno dei rischi è la polarizzazione fra lavoratori stabili e lavoratori fluttuanti, ma il più sentito è la “precarizzazione” cioè la fine del “posto fisso” che per molti europei è quasi un diritto di cittadinanza: infatti il senso di instabilità che si avverte è ancor prima culturale che sociale.
È questa la rivoluzione dell’industria 4.0? Nell’informazione scientifica sui farmaci è rappresentata dall’esternalizzazione a società che se ne occupano con call center o internet eliminando i “costi fissi” rappresentati da ISF in carne ed ossa.
Nonostante il neoliberismo abbia fallito alla prova dei fatti, consegnando il peggior disastro economico degli ultimi ’70 anni, dal punto di vista politico e intellettuale è rimasto l’unico attore sulla scena. I partiti di destra, di centro e di sinistra sono tutti stati conquistati dalla sua filosofia.
La crisi finanziaria dal 2007 in poi ha avuto l’effetto di minare la fiducia nella competenza delle élite di governo. Ha segnato l’inizio di una crisi politica più ampia. Ma le cause della crisi politica, evidentissima su entrambe le sponde dell’Atlantico, sono più profonde rispetto alla crisi finanziaria e alla debole ripresa dell’ultimo decennio. Vanno al cuore del progetto neoliberista. La caratteristica più disastrosa del periodo neoliberista è stata l’enorme crescita della disuguaglianza. L’aumento della diseguaglianza è diventata strutturale, si è prodotta la finanziarizzazione dell’economia, la riduzione del ruolo del pubblico e dei sistemi di welfare universali.
Ampi strati della popolazione negli USA e nel Regno Unito si stanno ribellando al loro destino, come dimostrato dal sostegno ricevuto da Trump e Sanders negli USA e dal voto inglese per la Brexit. In Italia il 40% dei votanti si astiene e un restante 30/45% esprime un voto di protesta.
La rivolta della gente è spesso descritta in modo denigratorio e sbrigativo, ed etichettata come populismo. Le élite politiche etichettano come populiste le politiche che i normali cittadini sostengono solo perché sono a loro sgradite. Il populismo è un movimento che si oppone allo status quo. Rappresenta l’inizio di qualcosa di nuovo, anche se in genere è più chiaro ciò cui si oppone di ciò per il quale si batte. Può essere progressista o reazionario, ma spesso è entrambe le cose. I perdenti dell’era neoliberista non sono più disposti a rassegnarsi dinanzi al loro destino, sono sempre più in aperta rivolta. Siamo testimoni della fine dell’epoca neoliberista. I partiti tradizionali non offrono una alternativa credibile (fanno tutti la stessa politica) ed il populismo, al momento, è l’unico sbocco ritenuto praticabile. Si dovrà inevitabilmente passare ad un nuovo assetto. Speriamo solo che sia indolore!
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