E’ una navigazione ben tempestosa quella che aspetta i capitani di Big Pharma in questi giorni. Da un lato la nota crisi dei blockbuster che sta asciugando le pipeline e, man mano che scadono i brevetti, anche i profitti. Dall’altra i governi: in Europa stringono la cinghia e impongono prezzi più bassi del previsto, mentre negli Usa impongono procedure di registrazione esasperanti per rispondere a una domanda crescente di sicurezza dei consumatori. Poi, le prime rogne anche sui mercati emergenti dell’Asia e del blocco ex sovietico, fino a qualche anno fa immaginati come un nuovo Eldorado di milioni di malati e oggi, invece, competitor più che aggressivi sul fronte della produzione di materie prime. Risultato: una rivoluzione del mercato che impone un cambio radicale di strategie. Quale? Lo abbiamo chiesto a Fred Hassan, il manager che, in meno di quattro anni, ha riportato la disastrata ScheringPlough a crescere stabilmente di oltre il 10 percento a trimestre; e che è presidente, oltre che Sp, della farmindustria mondiale, la Ifpma (International Federation of Pharmaceutical Manufacturers &c Associations). La globalizzazione di un mercato così particolare come quello farmaceutico impone un cambio di agenda alle grandi multinazionali? «Certamente sì. Sono in questo business da trent’anni. E per trent’anni ho saputo che il mercato farmaceutico era il mercato americano ed europeo, della Vecchia Europa, intendo. Perché da quei sette paesi veniva quasi tutto il nostro fatturato. Oggi non è più così. Anzi, e con un trend in discesa, ormai tutta l’Europa e gli Usa contribuiscono a poco più del 70 per cento del mercato. È un cambio di paradigma epocale. E ci chiede di adeguare la nostra mentalità. Per operare su mercati che non esistevano, quelli dell’Europa orientale e i paesi arabi, ad esempio. Oltre che, com’è più ovvio, quelli asiatici, e quelli latinoamericani: Brasile e Argentina stanno crescendo più di ogni altro paese su scala globale». Come adeguate le vostre strategie? «Per aggredire mercati nuovi dobbiamo prima di tutto iniziare a fare ricerca nei paesi emergenti. Fino a quindici anni fa gli unici studi credibili erano quelli fatti negli Usa, nel Regno Unito e in Scandinavia. Oggi, la gran parte dei nostri dati arriva da centri clinici dei paesi emergenti». Vuoi dire che a decidere se un farmaco fa bene o no non sono più americani e europei, ma clinici cinesi, russi o rumeni? Dobbiamo fidarci? « Molti paesi hanno imparato a fare studi clinici e costruito network credibili. E, comunque, le multinazionali hanno standard di qualità che ogni trial deve rispettare. Non solo: quando sottoponiamo una procedura di registrazione dalla Fda dobbiamo rendere noto all’autorità da dove vengono i dati. Certo, loro non rifiutano i dati perché vengono da un paese e non da un altro». Significa che ciò che conta per l’Fda e per l’Etnea, l’ente regolatorio europeo, è la credibilità dell’azienda? Che loro non controllano nulla? « Loro non controllano i singoli trial, ma controllano se il sistema dell’azienda è efficace e rigoroso. E in alcuni casi fanno ispezioni locali, se ravvisano delle cadute di credibilità del nostro sistema». Molti non saranno rassicurati da queste notizie. L’idea diffusa è che almeno la scienza si faccia nelle cattedrali occidentali del sapere medico-scientifico. «Quelle cattedrali sono troppo costose. Un paziente in trial negli Usa costa circa 15 mila dollari l’anno. In Polonia, 8 mila. E in India 3 mila». Rimangono le preoccupazioni per la sicurezza dei consumatori. «Il consumatore non saprà mai se il farmaco che gli viene prescritto è stato sperimentato