»I dati sui farmaci non dovrebbero essere segreti. Così titolava un articolo apparso sul New York Times a firma di Peter Doshi e Tom Jefferson. Perché – verrebbe da chiedersi – lo sono? Sì e no. Doshi e jefferson, prendendo a esempio il caso del Tomifin, di cui il mondo intero fece scorta durante il panico da influenza aviaria, pongono un problema generale, che è quello dell’accesso ai dati sperimentali su cui si basano le valutazioni di efficacia e di sicurezza dei medicinali. Questi dati vengono forniti nella loro completezza agli enti regolatori (negli Usa la Food and drug administration, in Europa l’European medicines agency), che così possono decidere se approvare o no un farmaco, e che cosa scrivere sul foglietto illustrativo.
Le industrie, però, non sono obbligate a pubblicare tutti i dati sulle riviste scientifiche. Il problema, beninteso, non è una «truffa» ai danni dei consumatori da parte di enti regolatori compiacenti, ma è che organizzazioni anche influenti, come possono essere l’Organizzazione mondiale della sanità o i Center for disease control, possono basare le loro valutazioni e indicazioni solo sulle sperimentazioni pubblicate (o meglio, in genere, su loro sunti, perché i trial possono essere anche di migliaia di pagine).
Nel caso in questione Doshi e Jefferson fanno notare che la Fda aveva segnalato l’utilità del farmaco per ridurre la durata dell’influenza, ma non si era sbilanciata molto di più, mentre diverse organizzazioni si erano spinte a ipotizzare una significativa azione nei confronti di eventuali complicanze batteriche.
Doshi e Jefferson tornano, con questo esempio, a battere dunque con forza su un tasto da tempo molto dolente nella comunità scientifica, cioè sulla necessità che anche i file cui hanno accesso solo gli enti regolatori siano resi interamente accessibili. E invocano anche un impegno più energico da parte di governi ed enti regolatori (soprattutto I’Fda) perché facciano pressione in questo senso. Una trasparenza che sarebbe senz’altro benvenuta.