Nel Belpaese si fa soprattutto innovazione di processo: si trovano mille versioni (formulazioni, arricchimenti, dosaggi, eccetera) di una molecola che cura, messa a punto altrove
DI DANIELA MINERVA – 11 marzo 2015 – L’ESPRESSO
Cominciamo col dire che trovare una nuova medicina, di quelle che fanno guarire i malati e impennare i fatturati, ha un costo spaventoso: 2,6 miliardi di dollari, è la stima della Tufts University. Che vanno a coprire la ricerca, le sperimentazioni sempre più complesse e i fallimenti, perché sono poche le molecole che sopravvivono alle prove cliniche e sbarcano davvero sul mercato. Poi, chi si trova in mano un farmaco realmente innovativo, quei 2,6 miliardi se li ripaga in un attimo: pensiamo che nel 2014 la nuova cura contro l’epatite C ha venduto, e solo negli Usa, per 7,6 miliardi.
Le dimensioni della ricerca farmaceutica sono impressionanti: 141 miliardi spesi l’anno passato dalle industrie che hanno, comunque, incassato circa 750 miliardi. Ovvio che nessuna delle mini-pharma italiane ha la potenza di tiro per competere. Il ritratto del comparto tracciato in queste pagine racconta crescita e successi di un’industria che produce alla grande farmaci spesso pensati e studiati altrove. Quanto questo impatterà sul futuro del suddetto comparto è da vedere. Ma è una certezza che noi siamo e restiamo un Paese di straordinari copiatori.
D’altra parte questa è la nostra storia, con poche eccezioni. Dalla metà dell’Ottocento quando a innovare erano le industrie chimiche tedesche, al primo Novecento della penicillina inglese. Su su fino alle sciagurate leggi degli anni Ottanta, quando, coi metodi rivelati da Sanitopoli, gli industriali convinsero i politici ad allungare la durata del brevetto e assicurare loro profitti da capogiro, col Ssn che strapagava farmaci scoperti all’estero ma venduti in Italia dalle imprese italiane. Fattacci del passato a parte, quel che conta è che nel corso dei decenni la nostra capacità produttiva si è affinata.
E la ricerca? Beh, è un’altra storia. È vero che qua e là ci sono piccole realtà, biotech ma non solo, che mettono le mani su prodotti interessanti. E un’eccezione nel panorama italico dei copiatori è la Chiesi di Parma, che ha messo i soldi per il primo farmaco a base di cellule staminali al mondo (l’Holoclar, studiato dagli scienziati dell’università di Modena, nella foto a destra); che ha sviluppato la prima terapia genica contro una malattia rara. Ma, per il resto, ciò che si fa nel Belpaese è innovazione di processo: ovvero si trovano mille versioni (formulazioni, arricchimenti, dosaggi, eccetera) di una molecola che cura, messa a punto altrove.
E se qualche brillante scienziato ne scopre una che ha una potenzialità terapeutica seria, si affretta a venderla a una Big Pharma: troppo complessi e costosi i procedimenti per verificare il prodotto e piazzarlo nel cuore dei dottori di mezzo mondo. Il Made in Italy si ferma lì. Così, siamo scivolati in fondo. E non ci sono italiane nella top delle imprese che curano il mondo: americane, svizzere, francesi, giapponesi, tedesche e persino israeliane.
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