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Fare un vaccino: difficile come mandare in orbita lo Shuttle

Siamo stati a Wavre, in Belgio, nel più grande centro di produzione di vaccini del mondo. Dove, oltre a 4.500 dipendenti, 1300 sono addetti ai controlli di qualità e può capitare che un intero lotto di vaccini vada al macero perché manca un foglio di appunti. “I vaccini salvano ogni anno 2,5 milioni di vite e un numero molto più alto è risparmiato dalle conseguenze devastanti delle infezioni”. “Devono passare cinque anni di controlli su ogni vite, ogni valvola, ogni singola procedura perché un impianto, una volta terminato, possa entrare in attività”

Roberta Villa,

Eravamo cinque giornalisti provenienti da cinque diversi Paesi d’Europa, invitati a visitare il centro di produzione di vaccini di GSK a Wavre, in Belgio. Il sito è a una trentina di chilometri da Bruxelles, e nessuno aveva pensato, a metà febbraio, di portare gli occhiali da sole, che invece sarebbero proprio serviti. Al risveglio mattutino, infatti, al posto dell’umido grigiore che immaginavamo, ci aspettava, prima di una lunga serie di sorprese, una luce limpida che nel mattino invernale si rifletteva sulla campagna belga glassata di brina.

Ma all’aria aperta, gradevolmente frizzantina, siamo stati ben poco. Dopo la coda per ottenere il pass, insieme alla ricercatrice malese velata, alla dirigente americana col tacco 12 e a decine di altri visitatori di ogni colore e nazionalità in lista per i più svariati motivi, siamo entrati finalmente nel centro di Wavre.

In Belgio ci sono tre diversi insediamenti dedicati ai vaccini di proprietà di GSK, a poca distanza l’uno dall’altro, ma quello di Wavre, già da solo, è enorme.

Facile dire che sembra una città, con edifici, strade, giardini, ma l’impressione è piuttosto quella di trovarsi in una grande stazione spaziale da film di fantascienza, con vetrate, scale e atri dai soffitti così alti da far sentire chiunque una formica, in mezzo al brulicare di migliaia di persone in cui però ogni movimento è sorvegliato, ogni accesso controllato.

Il sito è il quartier generale della sezione vaccini di GSK ed è forse il luogo più indicato per comprendere che sfida enorme sia rendere disponibile un vaccino a milioni di persone, sia in situazioni ordinarie sia di fronte all’emergenza, come l’attuale focolaio di meningite in Toscana.

GSK produce circa 800 milioni di dosi di vaccini all’anno, inviate a 170 Paesi in tutto il mondo. «Da questa struttura tuttavia esce solo una goccia in questo grande mare di vaccini: l’esavalente, quelli contro l’epatite… in totale non più di 4-6 prodotti tra i 40 circa del portfolio dell’azienda», ci ha spiegato con il suo accento irlandese John McGrath, responsabile delle attività industriali mondiali di GSK. «Gli altri vengono da una quindicina di altri centri diffusi in tutto il mondo, suddivisi secondo criteri legati alle modalità di produzione: quelli antinfluenzali hanno percorsi dedicati, così come quelli costituiti da virus vivi e attenuati (per esempio i vaccini per il morbillo o la rosolia), che richiedono un livello di sicurezza perfino superiore a quel che si osserva qui».

I cosiddetti antigeni, piccoli frammenti del microrganismo capaci di stimolare la risposta immunitaria specifica, ma non di riprodursi e quindi di indurre la malattia, non sono sempre isolati e purificati nello stesso luogo da dove uscirà il vaccino: quelli necessari per produrre a Wavre l’esavalente, per esempio, vengono da tre diversi stabilimenti in tre diversi Paesi, e qui sono solo (si fa per dire) assemblati in un unico prodotto, che in realtà unico non è, dal momento che ogni Paese di destinazione pretende piccole differenze specifiche di cui tener conto.

Il dominio della complessità

Per chi mette piede in uno stabilimento come quello di Wavre, per chi si confronta con gli esperti che ci lavorano, per chi guarda nella pancia della produzione dei vaccini c’è una parola che fa fatica a uscire dalla testa: è “complessità”. Ed è forse questa che contribuisce a spiegare perché, dopo l’acquisizione del settore vaccini di Novartis da parte di GSK, sono rimaste solo quattro le grandi multinazionali che investono nei vaccini: «Per entrare in questo settore occorrono investimenti maggiori rispetto a quelli necessari per produrre gli altri farmaci, la cui sintesi chimica è più semplice e che sono soggetti a meccanismi di regolazione meno severi», spiega Thomas Breuer, direttore medico del settore vaccini di GSK.

«Gran parte della produzione, poi – l’80 per cento, nel caso di GSK – è destinata a Paesi a basso o medio reddito da cui si ricava poco profitto, che deve essere compensato dalle vendite nei Paesi più ricchi». Il mercato globale dei vaccini infatti rappresenta soltanto il 2-3% circa di quello globale dei medicinali. «In Italia è di 350 milioni, che corrispondono solo a una minima quota degli oltre 5 miliardi che il governo ha riservato alla prevenzione, corrispondente al 5 per cento dei 111 miliardi del Fondo sanitario nazionale», aggiunge Daniele Finocchiaro, presidente e amministratore delegato di GSK Italia. «Per un confronto con altre voci della spesa farmaceutica, si pensi che per le sole statine che servono ad abbassare il colesterolo si spendono in Italia 600 milioni, per non parlare dei due miliardi destinati ai farmaci per l’epatite C».

Non che le farmaceutiche non guadagnino dai vaccini. I ricavi in questo settore sono in crescita: secondo un rapporto di Marketsandmarkets, il mercato globale dei vaccini, che superava di poco i 33 miliardi di dollari nel 2014, sfiorerà i 58 entro il 2019. A investire sui vaccini, inoltre, si ha in più il vantaggio, non secondario, che il diritto intellettuale non scade come quello degli altri medicinali, che dopo alcuni anni sono soggetti alla concorrenza dei generici.

Accanto ai guadagni dell’industria farmaceutica, bisognerebbe tuttavia soppesare, nelle diverse situazioni, anche i benefici che traggono dai diversi trattamenti i pazienti o, più in generale, la società.  I vaccini lo fanno salvando, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, 2,5 milioni di vite, per lo più bambini, ogni anno, e preservandone molti di più da paralisi e altre forme di disabilità.

Ci guadagna Big Pharma, ma non c’è dubbio che ci guadagnino tutti, e non solo in termini di vite umane. Dopo la possibilità di accedere all’acqua potabile, le vaccinazioni sono considerate il provvedimento più efficace e prezioso in termini di sanità pubblica. La prevenzione delle malattie infettive infatti aumenta la produttività e riduce i costi sanitari. Sempre l’agenzia internazionale ha calcolato che, al di là del valore umano, il ritorno in termini economici degli investimenti sulle vaccinazioni sia del 12-18 per cento.

La lentezza della qualità

Tutto questo però è noto. Meno risaputo, invece, è che il principale problema di chi produce vaccini non è riuscire a piazzare i prodotti stipati nei magazzini, ma tenere il passo con le richieste, che sono molto più variabili e imprevedibili di quelle di farmaci per abbassare la pressione o la glicemia. Se anche per i farmaci, quindi, ci sono a volte difficoltà di forniture (leggi “C come carenza. Se tutto il mondo resta a secco di medicine”), in tutto il mondo ci sono situazioni in cui procurarsi l’uno o l’altro vaccino è a tutt’oggi una vera impresa. La visita al sito di Wavre mi ha spiegato come ciò sia possibile.

In Toscana, per esempio, è caccia al vaccino contro il meningococco C, responsabile di una quarantina di casi di meningite che si sono verificati nella zona tra il 2015 e l’inizio di quest’anno. Le 150 mila dosi di Menveo fornite da GSK e le 100 mila di Nimenrix arrivate da Pfizer negli ultimi giorni non bastano nemmeno lontanamente a coprire l’emergenza. A questi due vaccini quadrivalenti, che proteggono cioè anche da altri 3 ceppi (A, W135 e Y) di meningococco, GSK ha aggiunto 200 mila dosi di monovalente, utile cioè solo contro il ceppo C. Si è comunque ancora lontani dall’obiettivo della Regione, che punta a proteggere dalla malattia circa un milione e mezzo di persone.

«In queste prime settimane dell’anno abbiamo già consegnato in totale alla sola Toscana, tra quadri e monovalenti, 350 mila dosi, pari a tutta la fornitura dell’anno scorso», spiega Finocchiaro. Per avere un parametro, fino a un paio di anni fa, prima di questa emergenza, il consumo medio di vaccini contro la meningite C in tutta Italia era di 100 mila dosi circa. «Per cercare di sopperire alle richieste siamo ora riusciti a ottenerne da Grecia, Indonesia e Argentina altre 700 mila dosi. Per consegnarle, siamo in attesa di conferma dalla Regione».

Ma perché è così difficile procurarsi i vaccini in caso di bisogno? Non basterebbe produrne di più?

Solo osservando come si fa un vaccino si riesce a capire perché le aziende farmaceutiche, davanti a una domanda così forte, anche da parte di un’opinione pubblica che in generale sembra sempre più restia a farsi vaccinare, non riescano a sfruttare l’occasione e fornire i prodotti al più presto.

Non è semplicemente una questione di capacità produttiva, anche se devono passare circa cinque anni di controlli su ogni vite, ogni valvola, ogni singola procedura perché un impianto, una volta terminato, possa entrare in attività. «L’ok per ogni singolo edificio deve venire dall’Organizzazione mondiale della sanità, dall’Agenzia europea per i medicinali, dalla Food and Drug Administration statunitense, oltre che da altre autorità regolatorie nazionali di altri Paesi extraeuropei come Brasile o Giappone», spiega McGrath. «Le richieste spesso non sono le stesse, per cui occorre trovare il modo di alzare gli standard in modo che soddisfino tutti. E questi standard devono essere mantenuti nel tempo, dal momento che ogni anno si susseguono più di un centinaio di ispezioni da parte dei diversi enti». Il centro GSK di Wavre, per esempio, è oggetto di ispezioni da parte delle autorità sanitarie circa 250 giorni l’anno.

Questo, però, è ciò che succede a monte. Provate a indovinare quanto tempo ci vuole per fare un nuovo lotto di un qualunque vaccino che è già di routine in produzione. Non si parla della ricerca di un nuovo prodotto, che richiede anni, di solito più di 10-15, necessari per la messa a punto, lo sviluppo, l’esecuzione di studi che confermino sicurezza ed efficacia, le procedure di autorizzazione.

Si parla molto di quanto questo percorso sia dispendioso in termini di tempo e denaro, e di come si potrebbe provare ad accorciarlo. Questo discorso vale per tutti i farmaci. «Ma se progettare e produrre un farmaco comune equivale a progettare e produrre un’auto, mentre un farmaco biologico è molto più complesso, ideare e produrre un vaccino lo è ancora di più, come portare nello spazio uno shuttle», conclude Mc Grath, che nel campo dei farmaci biologici ha lavorato per più di vent’anni.

I tempi necessari per avere un nuovo vaccino si sono visti nel corso delle ultime emergenze internazionali: «Nel caso di ebola, data l’emergenza di salute pubblica di interesse internazionale, l’Organizzazione mondiale della sanità ha consentito di accelerare le procedure, in modo da poter cominciare a sperimentare i primi vaccini sul campo in tempo utile», spiega Breuer. In quel caso, GSK ha perso per un pelo la gara con Merck, che è riuscita a dimostrare l’efficacia del suo vaccino mentre ebola stava dando i suoi ultimi colpi di coda, ma ha comunque sviluppato un prodotto che sarà pronto per la prossima occasione. «Anche in questo caso, tuttavia, non si partiva da zero, perché per ebola c’erano alle spalle già anni di studio».

Per zika, è tutta un’altra storia. In mezzo a tante malattie tropicali che compromettono la salute e la produttività delle popolazioni nei Paesi in via di sviluppo, nessuno aveva mai preso in considerazione questo virus, per la lieve sintomatologia che dà, prima che sorgesse il sospetto di un suo possibile legame con la microcefalia dei neonati. Se qualche azienda oggi decidesse di iniziare il percorso per produrre un vaccino, per arrivare a un primo prodotto sperimentale ci vorrebbero molti più anni: il grosso del danno sarebbe già fatto oppure qualcun altro dovrebbe aver trovato un’altra soluzione. Investirci sopra, non sembra un grande affare.

Una fiala 100 controlli

Ma torniamo ai vaccini già esistenti in commercio. Su quali tempi avete scommesso, per la loro produzione? Due settimane? Due mesi? Ebbene, la singola dose che solca a febbraio 2016 la soglia di una farmacia o di una ASL ha iniziato il suo percorso almeno 9-10 mesi, ma più spesso due anni fa. Per ogni lotto occorre tutto questo tempo infatti per ottenere e purificare l’antigene, cioè la sostanza estratta dai virus o dai batteri che dovrà evocare la risposta immunitaria; accoppiarlo, quando occorre, ad altri elementi che facilitino questa risposta; mescolarlo con i vari eccipienti necessari e con altri antigeni, nel caso di vaccini che proteggono contro più malattie; riempire le fiale; confezionarle; spedirle in tutto il mondo.

Nuove tecnologie permetteranno in futuro di accelerare alcuni di questi processi, ma, anche considerando tutte queste fasi, tempi così lunghi si riescono a capire solo considerando che il 70 per cento di questo iter è dovuto a controlli di qualità: da parte dell’azienda, prima di tutto, ma anche del Paese in cui il vaccino viene prodotto e di quello in cui viene importato.

Nel corso di questo processo ogni lotto è sottoposto ad almeno un centinaio di controlli e test, che in alcuni casi diventano più di 500. Basta una piccola irregolarità, perché tutto il lotto venga dismesso.

Per esempio, qui a Wavre, il problema che deve affrontare oggi Clive Blatchford, un simpatico gallese che ama le cravatte vistose ed è vice presidente controllo qualità mondiale vaccini di GSK, può sembrare banale: al dossier che documenta passo passo la lavorazione di un lotto di vaccini manca una pagina. Una pagina su un migliaio. «Probabilmente non significa nulla», commenta. «Ma “probabilmente” qui non basta, e se non salterà fuori, l’intero lotto sarà buttato via e non potrà entrare sul mercato».

Blatchford è a capo di una squadra di 1.300 professionisti dedicati esclusivamente ai controlli di qualità, un numero impressionante se messo a confronto con i 4.500 addetti che lavorano nel sito di Wavre. Anche questi colleghi sono sottoposti, come i prodotti e le procedure, all’attenta vigilanza del team addetto alla qualità, che si occupa di verificare per esempio che tutto il personale sia adeguatamente formato e aggiornato.

Pensate alle grandi incubatrici, chiamati isolatori, in cui si mescolano tutti gli ingredienti per ottenere la formulazione finale di un vaccino. L’operazione è fatta a mano, sotto il controllo di sofisticate apparecchiature, e richiede un’estrema precisione. Se per errore una goccia cade dalla pipetta, tutto l’isolatore, che deve sempre garantire una sterilità assoluta, deve essere ripulito e disinfettato, con una procedura che richiede l’impegno di almeno un paio di persone per diverse ore. Nemmeno si può provare a chiudere un occhio, perché al lavoro ci sono contemporaneamente sempre almeno tre persone, che sorvegliano le une sulle altre. Prima che ciascuno di loro possa infilare da solo le mani guantate e disinfettate negli ulteriori guanti incorporati nella parete dell’isolatore, e operare al suo interno, occorrono almeno 6-9 mesi di addestramento.

Ogni fiala di vetro deve dimostrare di non essere scheggiata o incrinata, ogni certificazione deve essere controllata fino all’ultima virgola. Dopo tutti questi controlli,effettuati a ogni singola fase della lavorazione, occorrono altre nove settimane per ricontrollare il tutto e dare il via libera al lotto.

Programmare l’imprevedibile

La programmazione di una lavorazione così complessa deve avvenire con almeno un anno di anticipo. Si spiega così perché è impossibile rispondere in tempi brevi a una nuova richiesta, come quella che viene da un’epidemia o da un disastro naturale. Ma a fare impennare la domanda possono anche essere altri tipi di eventi, come l’ondata di rifugiati arrivata in Europa negli ultimi mesi da Paesi in guerra e che devono essere protetti perché i sistemi sanitari da molti anni non erano in grado di fornire nemmeno i vaccini più essenziali.

O semplicemente la decisione, presa di punto in bianco dal governo spagnolo, di distribuire anche nelle farmacie il vaccino contro la meningite B o quella di altri Paesi di raccomandare un richiamo per la pertosse, che ha prodotto una carenza di entrambi i vaccini in tutta Europa. «In tutti questi casi, oppure quando ci troviamo nella necessità di sopperire al fatto che un’azienda concorrente, per sue difficoltà, non riesce a garantire tutte le dosi necessarie, abbiamo un codice scritto che stabilisce le priorità nell’assegnazione delle dosi disponibili» spiega Norman Begg, vice presidente, responsabile affari scientifici e salute pubblica del settore vaccini di GSK, che come Breuer è medico e viene da diversi incarichi nella sanità pubblica. «Prima di tutto vengono le esigenze di sanità pubblica, per esempio un’epidemia in corso, anche tenendo conto della possibilità di intervento da parte di altre aziende; poi le forniture ai governi con cui ci siamo impegnati firmando dei contratti; infine viene il mercato privato».

Non solo il grande pubblico, ma anche i decisori politici non sembrano essere consapevoli delle difficoltà tecniche legate alla fornitura dei vaccini e non ne tengono conto quando prendono i loro provvedimenti. Quello contro la meningite B, per esempio, è stato messo a punto dal gruppo di Rino Rappuoli a Siena con una tecnologia innovativa, la cosiddetta “reverse vaccinology”. Da quando è in commercio, circa un anno e mezzo, la sua richiesta ha rapidamente superato le aspettative. Il governo britannico, decidendo a settembre dell’anno scorso di vaccinare tutta la popolazione, ha fatto man bassa delle dosi disponibili. «In Italia per ora lo stanno distribuendo nove regioni, ma, in vista dell’approvazione del Piano nazionale vaccini che lo estenderebbe a tutto il Paese, ci siamo premuniti riservandocene le dosi necessarie», dice Finocchiaro. «Se altri Paesi dovessero decidere di introdurlo nei loro programmi di prevenzione, tuttavia, dovranno aspettare il tempo necessario a produrlo».

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