Una norma per trasformare il medico di famiglia in "educatore" del paziente all’uso dei farmaci generici-equivalenti.
E una per facilitare l’approdo degli stessi farmaci su mercato una volta giunta a scadenza la tutela brevettuale garantita al farmaco "originator".
Il decreto Monti sulle liberalizzazioni – definitivamente licenziato mercoledì scorso da Montecitorio – ha provato così a dare un contributo alla necessità di risparmio sul fronte della spesa farmaceutica pubblica. E certo non è un caso se proprio in questi giorni dalle reti televisive commerciali occhieggia l’ultima campagna informativa sui farmaci equivalenti e se le ricette con su scritto «non sostituibile» sono diventate protagoniste dell’ultimo servizio del format di Italia 1 «Le Iene».
Il decreto affida ai medici una mission forse non del tutto gradita: nel prescrivere un farmaco saranno tenuti ad informare il paziente della eventuale presenza in commercio di medicinali equivalenti e se non indicheranno esplicitamente sulla ricetta che il farmaco prescritto non è sostituibile il farmacista lo fornirà al paziente solo se non ne esiste uno a prezzo più basso disponibile.
Il cittadino in tal caso potrà comunque chiedere di ricevere il prodotto prescritto anche se più caro pagando la relativa differenza di prezzo.
Apparentemente cambia poco rispetto a oggi. In realtà se ben applicata la norma nelle intenzioni del Governo dovrebbe servire a far crescere i consumi di quei farmaci che – per legge – al momento dell’entrata in commercio devono costare almeno il 20% in meno rispetto alla specialità di riferimento e che negli ultimi dieci anni hanno contribuito a far diminuire il costo delle cure grazie all’arma della concorrenza.
Eppure, nonostante la convenienza, i generici continuano a non "sfondare" e i pazienti continuano troppo spesso a preferire il farmaco a brevetto scaduto "di marca": l’originator prodotto dall’azienda che per prima lo aveva proposto sul mercato.
Secondo i dai elaborati da Assogenerici nei primi otto mesi del 2011 gli italiani hanno speso di tasca propria 486 milioni di euro per coprire la differenza tra quanto rimborsato dal Ssn al prezzo di riferimento e il corrispondente farmaco di marca. E nonostante il progressivo aumento dei consumi di farmaci equivalenti, secondo i dati elaborati dal centro studi Aifa (Agenzia italiana del farmaco), sempre nel 2011 su un 35% di spesa farmaceutica pubblica riferita a farmaci scaduti dal brevetto solo il 10% è stato rappresentato da farmaci generici "puri", mentre il restante 25% è rimasto saldamente legato all’acquisto di prodotti branded.
E nonostante i ripetuti appelli rivolti alle Regioni da parte delle Finanziarie varate negli ultimi anni a far uso del generico come arma di risparmio le inclinazioni locali restano diversificate.
I consumi più elevati di medicinali fuori brevetto si registrano in Toscana (38,71% della spesa netta Ssn), Umbria (38,24) e Marche (35,44%); i più bassi in Lombardia (27,79%), a Bolzano (28,24%) e in generale al Sud. La situazione appare ancora diversa se si indaga su quanto incide il generico "puro" sulla spesa di settore: Trento (15%), Emilia (13%), Toscana (12%) e Piemonte (12%) rappresentano gli esempi più virtuosi, mentre soprattutto il Sud non raggiunge la media Italia.
Occasioni di risparmio perse dicono gli addetti ai lavori.
Per questo la questione è finita anche nel mirino del Dl sulle liberalizzazioni, varato proprio mentre le Regioni e il Governo sono alla stretta finale del confronto sul Patto per la salute nel cui ambito dovr&agrav
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