Le multinazionali incassano fiumi di soldi pubblici per sperimentare le cure
Sono un business da quasi 200 miliardi di euro ma c’è ancora chi li chiama «orphan drug». Farmaci orfani, di malati rari e quindi di investimenti in ricerca. Una volta. Perché negli ultimi anni le multinazionali della pillola si sono buttate a capofitto in quello che si sta rilevando un affare per big-pharma. Che incassa incentivazioni statali e diritti d’esclusiva mai visti prima, praticando poi prezzi stellari per medicine che diventano alla fine orfane di un bel niente.
LA STAMPA – PAOLO RUSSO – Pubblicato il 21/02/2017
Visto che partono con l’essere indicate per una malattia rara e finiscono poi per essere autorizzate alla cura di altre patologie, che a volte rare non sono. E poi fanno stropicciare le mani agli investitori finanziari. Le aziende che investono in «orphan drug» sono infatti 5 volte più redditizie delle altre e hanno titoli in borsa più alti del 15%, rivela uno studio delle Università di Bangor e di Liverpool.
Ad aprire la strada agli investimenti nella ricerca di farmaci orfani è stato l’Orphan drugs act staunitense del 1983, seguito poi dal Regolamento europeo n.141 del 2000. Provvedimenti senza i quali le imprese non si sarebbero avventurate nel rischioso e costoso percorso che porta alla scoperta di un farmaco destinato a curare malattie che, per rientrare nella definizione di «rare», non devono contare più di 5 casi ogni 10mila persone (in Italia i malati rari si stima siano tra i 450 e i 650mila). E allora via a credito d’imposta del 50% sui costi per la ricerca, iter velocizzato per la costosissima sperimentazione clinica e incentivi post-marketing.
Come i dieci anni di esclusiva sul mercato che, aggiunti al brevetto, azzerano la concorrenza. Gli effetti si sono subito visti, come confermano i numeri sciorinati dal Presidente di Farmindustria, Massimo Scaccabarozzi. «Sono 209 le designazioni di farmaci orfani nel 2016, quasi triplicate nell’arco di dieci anni. E in Italia una sperimentazione su quattro autorizzate nel 2015 è nelle malattie rare. Risultati che confermano l’impegno nella ricerca dell’industria». Si, ma a quale prezzo? «Il nostro studio –spiega senza mezzi termini il professore di farmacoeconomia della Bangor University, Dyfring Hughes- conferma che le aziende fanno profitti eccessivi fissando prezzi molto alti per le terapie delle malattie rare».
E gli esempi che fornisce rendono bene l’idea. Il Kalydeco per la fibrosi cistica, approvato in Italia per 9 specifiche mutazioni genetiche, costa in Gran Bretagna 14 mila sterline (16mila euro) al mese. Tra i 10 farmaci più costosi al mondo c’è il Soliris, che di sterline ne costa ben 340 mila (più di 380 mila euro) ed è indicato per due malattie rare, l’emoglobinuria parossistica notturna e la sindrome emolitico uremica atipica. Un medicinale che ha generato un fatturato di oltre 6 miliardi di dollari negli ultimi 8 anni e che in Italia costa tra i 4600 e i 7500 euro a fiala. Una escalation che per il Professor Hughes «va ben al di là della prevedibile attesa di prezzi più alti del normale». E che può essere fermata «cambiando la politica degli incentivi e distinguendo tra farmaci veramente orfani e quelli utilizzabili per varie malattie».
Nel frattempo, come mostra l’Orphan drug report 2016 di Evaluate pharma, il mercato vola e raggiungerà i 182 miliardi di dollari nel 2022, marciando al ritmo del più 11,7% l’anno.
«L’importante è che lo sviluppo dei nuovi farmaci sia realmente indirizzato al bisogno dei pazienti, che abbiamo l’impressioni non siano sempre ben individuati, visto che spesso mancano i registri dei pazienti affetti dalle singole malattie rare», afferma la neo-presidente di Uniamo, Tommasina Iorno. Che poi ammette: «Come associazioni dei malati rari non abbiamo mai affrontato il problema del caro-prezzi». Una svista alla quale sarà bene riparare presto.
Related news: Malattie rare, troppe le difficoltà nell’assistenza ai pazienti