Pandemic and communication: the 5 mistakes that have ruined the reputation of governments, pharmaceutical companies and WHO

A un anno dall’inizio della pandemia da Covid -19, il mondo si trova ad affrontare due grandi sfide: la lotta al virus, con la ricorsa al maggior contenimento possibile dei contagi, e la campagna vaccinale più estesa e rapida della storia recente.

Il Giornale delle PMI – 20 aprile 2021

Esiste poi un’altra sfida, strumentale alle altre due e di centrale importanza, quella per una comunicazione chiara, affidabile e autorevole dei temi riguardanti salute pubblica e pandemia. Davide Ippolito, cofondatore di Zwan, agenzia di reputation marketing, ha deciso di parlarne nel suo ultimo libro Comunicare nella pandemia – Errori e piccoli disastri. Edito da Mediolanum Editori, il saggio breve, snello e con approccio divulgativo, racconta la ricaduta negativa di errori concettuali e scelte discutibili sull’autorevolezza delle principali istituzioni coinvolte. L’obiettivo non è però colpevolizzare o puntare il dito.

Al contrario, l’autore approfondisce il ruolo che la Reputazione, analizzata scientificamente e gestita oculatamente, può avere nel vincere la partita che si gioca ogni giorno per convincere la popolazione a non vanificare le misure per il contenimento del virus e gli sforzi per la vaccinazione di massa.

Una storia di errori e piccoli disastri

“Il problema non è che le notizie non vengano date, né la giusta prudenza e cautela nel dare le informazioni, ma una comunicazione efficace richiede senso delle proporzioni, deve saper distinguere il giusto allarme dall’allarmismo. Il fatto è che una comunicazione scellerata finisce con il far perdere autorevolezza” spiega Ippolito.

Ippolito, come detto, cita alcuni casi ben precisi, come le dichiarazioni, rilasciate pubblicamente tra gennaio e febbraio 2020, dal Presidente dell’OMS che affermava “la diffusione del virus non costituisce ancora un’emergenza di sanità pubblica di rilevanza internazionale”. Per non parlare dei numerosi capi politici di tutto il mondo che hanno messo in discussione l’esistenza stessa del virus.

“Ciò che sorprende – scrive Ippolito – non è la rilevanza degli errori di previsione (che possono essere compresi), ma la consapevolezza che una cosa che ha sempre funzionato in passato a un certo punto smetta di funzionare inaspettatamente e tutto quello che si è appreso risulta nel migliore dei casi irrilevante e falso, nel peggiore pericoloso e ingannevole. Questo procedimento mina fortemente la reputazione e l’autorevolezza delle istituzioni preposte a governare una crisi”.

La chiave di lettura risiede dunque nella reputazione. In questo senso, la pandemia sembra aver distrutto a poco a poco l’immagine autorevole che avevano i Governi e le Istituzioni sanitarie preposte. Tuttavia, spiega Davide Ippolito, ideatore del Reputation Rating, un algoritmo che pesa e misura le dimensioni della reputazione “Il driver fondamentale che garantisce l’efficacia delle scelte politiche è la reputazione, per questo una ripartenza non può non prescindere dal recuperare autorevolezza”.

Le strategie comunicative messe in atto nell’ultimo anno da quelle figure che avrebbero dovuto rappresentare un punto fermo per comprendere cosa stesse accadendo hanno spesso creato confusione. Confusione che ha portato ad allarmismo, scetticismo e, nei casi più estremi, negazionismo. La reputazione di organi e autorità ne è uscita malconcia, e oggi le istituzioni appaiono meno autorevoli e meno trasparenti.

Nel libro l’autore analizza con lucidità i 5 errori principali nel comunicare la Pandemia:

“Non si è tenuto conto delle principali regole logiche applicate alla comunicazione e alla psicologia del comportamento. Cosa che avrebbe potuto salvare vite umane – prosegue Ippolito – Ciò che appare chiaro è che anche situazioni così complesse dovrebbero e potrebbero essere affrontate con una scienza applicata alla comunicazione e alla gestione della reputazione delle autorità competenti”.

Ippolito, inoltre, dimostrando una buona dimestichezza con la psicologia collettiva, guida il lettore attraverso quegli errori cognitivi che dovrebbero sempre essere tenuti in considerazione quando si comunica un problema complesso: l’errore di conferma, cioè la tendenza naturale a cercare solo conferme; la fallacia narrativa, che riflette la nostra incapacità di osservare una sequenza di fatti senza aggiungervi una spiegazione oppure senza imporre un collegamento logico; le prove silenziose, quei ragionamenti apparentemente corretti ma viziati da errori logici.

“Il punto critico da raggiungere oggi è quello della vaccinazione di massa, non del terrorismo mediatico o delle imposizioni, bisogna guadagnare con autorevolezza la fiducia di tutti per uscire rapidamente da questa crisi e tornare a una vita normale nel più breve tempo possibile” – conclude Ippolito che, con questo libro consegna spunti e suggerimenti di vitale importanza a chi, nei prossimi mesi, sarà ancora impegnato nella sfida inedita di comunicare una pandemia in un mondo dominato da media e reti sociali interconnesse.

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La Psicologia del rifiuto dei vaccini (sintesi)

La nostra mente è soggetta a una serie di bias cognitivi, cioè a distorsioni sistematiche nel nostro modo di interpretare il mondo e di prendere decisioni. Si tratta di distorsioni delle quali non siamo consapevoli, e che a volte ci portano a prendere decisioni irrazionali anche quando siamo convinti di aver ben ponderato la questione.

Oggi gli psicologi riconoscono l’esistenza di decine di bias cognitivi diversi che si sono sviluppati nella mente dei nostri antenati perché li hanno aiutati a sopravvivere, a collaborare e a competere con i loro simili. Nella vita di tutti i giorni si rivelano spesso ancora utili, ma in una società tecnologica complessa come quella in cui viviamo oggi ci possono indurre a commettere errori anche molto gravi. E sono entrati in gioco anche nella grande controversia sui vaccini.

Per quasi tutto il Novecento, quando molte gravi malattie infettive erano ancora una minaccia anche nei paesi più ricchi e avanzati, i vaccini sono stati visti quasi come dei miracoli. Il 12 aprile 1955, quando fu annunciata la messa a punto di un vaccino contro la poliomielite, una malattia devastante che paralizza i muscoli, le campane di tutte le chiese d’America suonarono a stormo. Per decenni, quindi, quasi a nessuno venne in mente di rifiutare un vaccino. Era così perché tutti avevano perfettamente compreso gli studi sull’efficacia e la sicurezza dei vaccini? No, naturalmente, ma era ancora vivo il ricordo di quelle terribili malattie, e la percezione del rischio che si corre non vaccinandosi era accresciuta dal bias della disponibilità, che ci fa temere soprattutto i rischi che sono tenuti ben presenti per via dei ricordi, o semplicemente del fatto che se ne parla molto. Non solo. Siccome tutti facevano vaccinare i propri figli, questa sembrava a tutti la cosa giusta da fare. Il motivo? Il bias della riprova sociale: nel dubbio, tendiamo a comportarci come fanno le persone intorno a noi.

Con il passare degli anni, però, il ricordo delle epidemie del passato svaniva, soprattutto con l’arrivo di nuove generazioni che non le avevano mai conosciute. E un giorno accadde un fatto nuovo. Il 28 febbraio 1998, nel corso di una conferenza stampa in cui presentava un suo lavoro pubblicato dalla rivista scientifica Lancet, il medico inglese Andrew Wakefield avanzò l’ipotesi che la vaccinazione trivalente potesse causare l’insorgenza di autismo. Rilevatasi poi una truffa per ottenere indennizzi dalle aziende farmaceutiche.

I media privilegiano sistematicamente le notizie cattive rispetto a quelle buone, e in quel momento la cattiva notizia era il legame fra il vaccino e l’autismo, una condizione di cui ancora non si conosce con certezza la causa. Così, sempre per via del bias della disponibilità, che questa volta agiva in senso inverso, l’allarme divenne ancora più forte. Vaccinare o non vaccinare i propri figli? Nel dubbio, molti genitori scelsero di non farlo, spinti dal bias di omissione, quello che in caso di incertezza ci spinge a non agire piuttosto che ad agire. Quando un allarme riguarda bambini molto piccoli, nella nostra mente si attiva un meccanismo di difesa, sotto forma di una fortissima indignazione morale, che ci spinge a comportamenti di protezione senza metterci lì a ragionare. Una questione scientifica si era trasformata in una questione di giustizia, con delle vittime ma anche dei carnefici.

Spesso l’insorgenza dell’autismo veniva notata nello stesso periodo in cui veniva fatta la vaccinazione, e questo portò le persone a vedere un nesso di causalità fra le due cose: se l’autismo si manifesta poco dopo la vaccinazione, allora il vaccino deve esserne stato la causa. In realtà, si tratta di due eventi indipendenti che avvengono intorno ai due anni di età, ma il bias narrativo (conosciuto anche come illusione di causalità) fece sembrare questo legame molto plausibile.

Molti continuarono ad ascoltare Wakefield, e soprattutto associazioni di genitori e personalità varie che continuavano a sostenere che il vaccino fosse la causa dell’autismo. Perché? Il motivo è uno dei bias più potenti di cui siamo tutti vittime: il bias di conferma. Si tratta dell’istinto a cercare, a credere e a ricordare informazioni che confermano una nostra convinzione, e a rifiutare, non credere o dimenticare quelle che la possono smentire. Gli algoritmi che selezionano per noi le informazioni sui social media rinforzano ulteriormente il bias di conferma, e rinchiudono moltissimi genitori in una “bolla” in cui trovano soltanto post di persone o organizzazioni contrarie alle vaccinazioni. Tutte convinte di saperne di più degli scienziati, anche perché vittime dell’effect Dunning-Krueger, un bias cognitivo che ci porta a sovrastimare le nostre competenze in un ambito, anche se queste sono in realtà scarse.

Da allora hanno continuato a non far vaccinare i figli. Perché? Per via della dissonanza cognitiva. Quando una nostra forte convinzione viene messa in dubbio, spesso prendiamo questo fatto come un attacco verso di noi, e la nostra mente si mette alla ricerca di elementi, anche palesemente assurdi, che possano difenderci. Con questi elementi quindi costruiamo una spiegazione verosimile che giustifichi la nostra convinzione, anche se è un’idea in realtà insostenibile. In molti casi, svelare la bufala si rivela addirittura controproducente per via dell’effetto backfire, che ci spinge a rafforzare le nostre convinzioni sbagliate, quando le sentiamo minacciate. Così, negli anni, le accuse che inizialmente erano solo al vaccino trivalente si sono poi estese a tutti i vaccini, diventando sempre più forti e meno probabili, fino a immaginare l’esistenza di fantomatici complotti fra case farmaceutiche, scienziati, medici e autorità sanitarie di tutto il mondo.

La pandemia da Covid-19 produrrà probabilmente un’impressione così forte da tornare a convincere tutti della necessità di vaccinare i propri figli o se stessi: ecco il bias della disponibilità di nuovo in azione. Mai come in questo frangente, la disponibilità di un vaccino efficace rappresenta una miracolosa ancora di salvezza. Ma non dovremo per questo dimenticarci dei bias cognitivi che possono accecare il nostro senso critico. Solo una profonda consapevolezza della loro esistenza ci potrà proteggere dal prossimo abbaglio. Il pericolo infatti è sempre dietro l’angolo. Anzi, dentro la nostra mente.


Note:

Correlazioni spurie

In statistica, una correlazione spuria è definita tale quando due fenomeni risultano statisticamente correlati tra loro ma non sono necessariamente legati da un rapporto causa-effetto.

Avreste mai immaginato che i soldi investiti nella ricerca scientifica, spaziale e nella tecnologia hanno avuto, per ben dieci anni (1999-2009), lo stesso trend dei suicidi commessi con impiccagione, strangolamento o soffocamento? Oppure, avreste mai immaginato una correlazione spuria tra il numero di persone annegate in una piscina e il numero di film in cui è comparso Nicolas Cage? Sembra assurdo, e invece anche questo trend si è mantenuto per ben dieci anni!

Rilevando anno dopo anno il numero di matrimoni e il numero di rondini in cielo, si può osservare ad esempio una forte correlazione tra i due fenomeni, il che non è dovuto al fatto che uno dei due influenza l’altro, ma semplicemente al fatto che in certi paesi le rondini compaiono durante le loro migrazioni in primavera ed autunno che sono pure i periodi preferiti dalle coppie nello scegliere il giorno delle nozze.

In altri termini se due fenomeni risultano statisticamente correlati tra loro, non vuol dire necessariamente che tra di essi sussista un legame diretto di causa-effetto, potendo essere tale correlazione del tutto casuale (cioè spuria) ovvero dipendente da una terza variabile in comune, in assenza di meccanismo logico-causale plausibile che li metta in relazione tra loro.

È possibile rimediare a questo ordine di problemi mediante la misura e la comparazione della diversa strettezza delle correlazioni, se esistono sufficienti basi statistiche.

Gli statistici per evitare queste trappole della mente usano numerosi metodi, tra cui: Garantire un campione rappresentativo adeguato. Ottenere una dimensione adeguata del campione. Diffidare degli endpoint arbitrari. Controllo per quante più variabili esterne possibile. Utilizzo di un’ipotesi nulla e verifica di un valore p forte.

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