Acque colme di ‘super’ batteri, il cui sviluppo trova terreno fertile nei fiumi in cui vengono scaricati i residui della lavorazione industriale dei farmaci (principi attivi e intermedi). Ma anche impurità cancerogene che dall’India si insinuano nella catena produttiva risalendola fino ad arrivare nei medicinali presenti in tutto il mondo, inclusi gli scaffali italiani. Mentre la nube che avvolge il mondo del farmaco si addensa su Nuova Delhi, sulla scia delle vicende che sono emerse a più riprese negli ultimi anni, e recentemente evidenziate in un’inchiesta di Report, la Indian pharmaceutical alliance (Ipa) ha elaborato un piano d’azione per scalare la vetta del mercato farmaceutico globale ed entrare nella top 5 dei Paesi più rilevanti per il settore – in termini di valori – entro il 2030.
L’industria farmaceutica indiana è già terza a livello globale per volumi, ma a valori – la stima si aggira sui 38 mld di dollari annui – rimane all’undicesima posizione. All’attuale tasso di crescita annuo (Cagr) è previsto che le entrate nel settore farmaceutico indiano sfioreranno gli 80-90 mld di dollari entro il 2030. Ma le aziende del Paese hanno ben altri obiettivi. Secondo la Ipa, infatti, le entrate annuali potrebbero crescere di un ulteriore terzo rispetto alle previsioni, arrivando a sfiorare i 120-130 mld, raddoppiando nel complesso dal 3,6% al 7% la propria quota nel mercato globale, sempre entro il 2030. Come?
Senza dimenticare che l’India è il più grande fornitore di farmaci generici al mondo, e che tra il 2018 e il 2024 sono in scadenza brevetti per un valore complessivo a livello globale di 251 mld di dollari. L’Ipa ha individuato alcuni punti sui quali fare leva per raggiungere l’obiettivo in termini di entrate. In primis, accelerare la crescita del mercato interno incrementando la produzione di farmaci a prezzi accessibili fino ad arrivare a portare il DALY (Disability Adjusted Life Years, indice che misura la gravità globale di una malattia) per le maggiori patologie in India, a livello di quelli registrati nelle economie sviluppate come Stati Uniti e Regno Unito. Per facilitare questo processo l’industria dovrebbe supportare i programmi sanitari dello Stato, come l’Ayushman Bharat Yojana, che mira a coprire 100 mln di famiglie a rischio, pari a 500 mln di individui, ovvero il 40% della popolazione indiana. Ciò costituirebbe un grande passo verso l’accesso universale ai farmaci.
Ma non solo, perché da ‘regina dei generici’, l’industria indiana, secondo l’Ipa, deve puntare a brillare anche per innovatività. Obiettivo ultimo: entro il 2030 arrivare a lanciare ogni anno (o comunque a portare ad uno fase di studio molto avanzata) dalle 3 alle 5 molecole, e 10-12 innovazioni incrementali. E allargare il proprio portfolio sviluppando nuove classi di prodotti, dalle terapie geniche ai biosimilari. Per avere un’idea della fetta di mercato che le aziende indiane vorrebbero aggredire, è sufficiente prendere come riferimento proprio i biosimilari: se l’industria fosse in grado di accaparrarsi anche solo il 10% di un mercato che si prevede possa superare i 60 mld di dollari entro il 2030, il pharma indiano potrebbe crescere del 13%. Le aziende farmaceutiche, tuttavia, dovranno avere una visione a lungo termine, circa 8-10 anni, per cogliere queste opportunità, perché gli investimenti in queste tecnologie hanno periodi di gestazione elevati.
Un altro tassello fondamentale nel piano Ipa è ampliare l’export in tutti i grandi mercati dove, ad oggi, c’è una bassa penetrazioni di prodotti indiani, come il Giappone, la Cina, l’Africa, l’Indonesia e l’America Latina. Lo scorso anno l’India deteneva solo l’1% delle quote del mercato del farmaco giapponese, un mercato da oltre 85 mld di dollari nel 2018. Per favorire l’incremento dell’export l’Ipa suggerisce l’introduzione di nuovi modelli di business, come ad esempio partnership con l’industria manifatturiera locale, con i distributori, e così via, in modo da venire incontro alle esigenze del Paese nel quale vuole solidificare il business. Interventi e supporto nelle relazioni commerciali da parte del governo favorirebbero notevolmente questo processo, sottolinea l’Ipa.
Ma l’alleanza del farmaco indiano vuole anche conquistare la leadership nello spazio dei generici degli Stati Uniti. In questo processo l’industria dei generici indiana è agevolata da una progressiva facilitazione nel tempo nell’ottenere l’ok all’utilizzo di procedure abbreviate per il rilascio dell’autorizzazione all’immissione in commercio (Anda) di nuovi farmaci, dal 26% nel 2011 al 38% nel 2017.
Secondo l’Ipa, l’insieme di queste azioni dovrebbe essere decisivo per portare l’India a diventare “il più grande e più affidabile supplier di farmaci al mondo entro il 2030”, e salire così dalla terza alla prima posizione in termini di volumi. Tuttavia, sull’affidabilità della produzione indiana, rimangono aperti molti dubbi.
The costo della manifattura indiana che rende la produzione locale così attrattiva per il mercato estero – in media inferiore del 35-40% rispetto a quella statunitense -, in realtà un prezzo lo sconta eccome. I controlli di qualità, infatti, sono ridotti rispetto agli standard occidentali. Non a caso l’India è il Paese in cui, a partire dal 2009, c’è stato il maggior numero di ispezioni da parte dell’Fda. La stessa Ipa, infatti, ha rilevato la necessità di incrementare gli standard qualitativi. Questa mancanza si è più volte scontrata con la realtà innescando meccanismi non virtuosi che mettono a rischio la salute globale.
Nel 2018 l’allarme partito dalla Spagna per la presenza di farmaci antipertensivi contenenti principio attivo valsartan contaminati con una sostanza potenzialmente cancerogena, si è poi diramato nel resto dell’Europa e negli Stati Uniti, anche per altri farmaci antipertensivi. Principi attivi tutti prodotti in laboratori cinesi e indiani. E secondo l’Agenzia Europea dei medicinali, “un nuovo caso di cancro potrebbe comparire ogni 5mila pazienti” che hanno assunto alte concentrazioni di questi farmaci.
Recente è anche lo scandalo dei farmaci a base di ranitidina – antistaminici e antiacidi – per i quali, a fine settembre, è stato disposto da parte dell’Aifa, Theritiro dal mercato di alcuni lotti, e il divieto di utilizzo di tutti gli altri medicinali contenenti quel principio attivo. Anche in questo caso sono state rilevate impurità cancerogene in farmaci sia generici che brandizzati, il cui principio attivo era stato prodotto in India.
E il problema si allarga anche alla contaminazione ambientale che ha portato allo sviluppo di super batteri: il batterio farmaco-resistente New Delhi, That in Toscana tra novembre 2018 e il 30 ottobre 2019 è stato isolato nel sangue di 129 pazienti, con un tasso di letalità del 33%, è stato ribattezzato così perché isolato per la prima volta nel 2008 in un paziente svedese dopo un viaggio in India.
Attualmente, infatti, in India non esiste una legge che indichi chiaramente i limiti per lo scarico dei residui delle lavorazioni industriali di antibiotici nelle acque locali. Ma il governo indiano è al lavoro: in una lettera dell’11 ottobre indirizzata alle associazioni a cui aderiscono le aziende farmaceutiche, le industrie manifatturiere e non solo (come la stessa Ipa), ha sottolineato la necessità di effettuare maggiori controlli sui residui che vengono riversati nelle acque dei fiumi, causa chiave dello sviluppo delle resistenze antimicrobiche. Attualmente, il Central Pollution Control Board ha eletto un Comitato di esperti che sta stilando un documento nel quale verranno riportati gli standard da rispettare per limitare l’inquinamento ambientale. In attesa della pubblicazione di questo documento, “è cruciale che l’industria farmaceutica capisca lo stretto legame tra la dispersione ambientale di principi attivi e la resistenza antimicrobica”, si legge nella lettera indirizzata alle associazioni.
Sono, dunque, ancora molti i limiti di un’industria che punta molto in alto. Non resta che aspettare per vedere se il Paese riuscirà a raggiungere, in sicurezza, gli ambiziosi obiettivi che l’industria farmaceutica indiana si è prefissata.