La pandemia da Sars-Cov-2 ha impedito le visite agli studi medici, suggerendo il ricorso a piattaforme per facilitare la comunicazione tra Isf e medici. L’esperienza del gruppo Jakin raccontata dal suo fondatore Giuseppe Anguilla
L’informazione medico-scientifica non si può fermare. È la lezione che si può trarre dall’esperienza del lockdown che la pandemia ha imposto in Italia. Questa emergenza ha mostrato come il rapporto fra industria del farmaco e i medici non possa essere sospeso, perché permane la necessità, continua, di aggiornamento sugli studi, il bisogno di una relazione sull’uso delle terapie nella pratica clinica, l’importanza di raccogliere le osservazioni dei medici e correlarle con la complessità dei casi. Inevitabilmente, all’inizio della quarantena, il contraccolpo del Covid-19 era stato piuttosto consistente nei confronti di questo settore.
I study
Un’indagine Medipragma – pubblicata su AboutPharma and Medical Devices a maggio scorso e condotta tra medici di medicina generale e pediatri di libera scelta – ha evidenziato il crollo nei canali tradizionali di informazione, come gli Ecm (scesi del 69%) e del contatto “face to face”, praticamente dimezzato (-51%). A scrivere un’altra storia, dentro la crisi, ha pensato il gruppo internazionale Jakin, che opera come Contract sales organisation (Cso) in tutta Italia con una rete di circa 350 professionisti, raggiungendo medici di medicina generale e specialisti. La società ha costruito un sistema che potesse operare da remoto efficacemente e fornisse innanzitutto un servizio ai medici, di fatto allontanati dai propri pazienti nel momento di maggiore emergenza sanitaria. Del tema parla Giuseppe Anguilla (in the picture), 54 anni, fondatore e presidente di Jakin dopo una carriera in gruppi farmaceutici internazionali.
L’intervista
Con le attività di informazione scientifica ferme, non era meglio ricorrere agli ammortizzatori che pure il Governo ha attivato?
Ovviamente era un’opzione. Potevamo avvisare i nostri partner, le aziende produttrici, e comunicare la necessità di fermarci. Potevamo chiamare i capi area, scrivere al personale, allargare le braccia e dire: “Cari collaboratori, c’è una pandemia in corso, c’è un’emergenza, c’è il Fondo di integrazione salariale. Ne parliamo quando tutto sarà terminato”. Oppure…
Oppure?
Oppure risolvere i contratti per forza maggiore. E una pandemia certo lo era. Invece ci siamo presi alcune giornate di osservazione, con i vertici del gruppo, con i nostri partner, perché sentivamo che si poteva, anzi si doveva tentare di fare un passo, tutti insieme. Che fare impresa significa innanzitutto capire il mercato e adattarsi alle sue mutate condizioni. O almeno provarci. Finché ci è sembrato ragionevole tentare una nuova modalità, da remoto, che proponesse ai nostri interlocutori una modalità informativa che desse contenuto, possibilmente più contenuto, perché la novità doveva giustificarsi, doveva far trasparire valore per chi, insieme a noi, voleva farne esperienza. C’era cioè da convincere anche le aziende vostre clienti… Naturalmente, una scelta che giocoforza doveva essere condivisa con questi nostri partner. Fornire loro una proposta operativa credibile, una modalità alternativa sostenibile per continuare l’attività.
Come vi siete mossi?
Con la necessaria formazione, passaggio tutt’altro che banale. C’era da proporre un forte cambiamento a oltre 350 professionisti abituati a una metodologia classica di approccio e quindi al contatto diretto, con un’esperienza che li portava a veicolare gli aggiornamenti, i plus, le novità del farmaco nel breve, utilizzando la comunicazione verbale, facendo leva sull’empatia, sulla psicologia sperimentata in tanti anni di lavoro. A questi professionisti bisognava proporre una metodologia nuova: l’attività da remoto per telefono e l’interazione con i medici attraverso piattaforme di e-detailing, l’analisi e la proposta di contenuti nuovi sulla base dei quali costruire una relazione nuova. O meglio, rifondare la relazione esistente.
Una formazione da realizzare a distanza, ovviamente…
Certo. La nostra direzione del personale ha lavorato creando con alcuni consulenti i materiali su cui realizzare veri e propri moduli di formazione a distanza, cui sono stati poi abbinati gruppi volontari, da 5-6 informatori, affiancati da un paio di facilitatori, in cui si poteva liberamente focalizzare le criticità del servizio.
Quindi siete andati a proporli ai medici?
Prima, ovviamente, abbiamo affrontato la validazione regolatoria del processo. Naturalmente è stata necessaria una profilazione dei medici al primo approccio per capire quali momenti della loro giornata sarebbero stati ideali per il nuovo tipo di colloquio, in modo da non entrare in conflitto con il loro lavoro, ma anche per inquadrare l’obiettivo dell’interazione e condividerne l’utilità.
Cosa avete proposto ai medici di medicina generale?
Diversi contenuti: alcuni più specificatamente clinico-scientifici in relazione all’attualità Covid, elaborati dai direttori medici, spesso un vero e proprio scouting tra articoli internazionali, in relazione alle patologie più comunemente trattate e al supporto al medico stesso nella presa in carico del paziente complesso nel contesto della pandemia. Ovviamente abbiamo proposto anche l’aggiornamento sui farmaci che trattiamo ordinariamente.
La risposta qual è stata?
Superiore a ogni aspettativa. La fase di primo contatto ha avuto una percentuale di risposta del 60%, che è altissima, e ha condotto a circa un 50% di colloqui da remoto.
Che cosa hanno riferito gli informatori?
Una soddisfazione diffusa dei loro interlocutori medici, per molti dei quali la possibilità di un colloquio approfondito, in un momento dedicato, libero dall’urgenza ambulatoriale, è stata colta davvero positivamente, evidenziando il piacere di una relazione competente che ha saputo tenere anche in un momento in cui tutto sembrava un po’ decadere, rarefarsi. La primissima mail di contatto esprimeva, senza infingimenti, un riconoscimento del loro lavoro e un incoraggiamento del loro impegno. Non frasi di circostanza, non facili formule di marketing: era il sentimento diffuso tra tanti italiani e ci siamo permessi di scriverlo.
Forse avete colto anche una certa solitudine in questi professionisti?
Forse. Tutti presi dall’emergenza, in pochi abbiamo pensato a quanto i medici si fossero trovati soli nella tempesta: con gli ambulatori chiusi, certo, ma sottoposti a una grande pressione psicologica nel rispondere ai dubbi e alle paure dei loro assistiti.
Secondo lei è nato un nuovo modo di fare informazione scientifica o si tratterà di una parentesi legata all’emergenza?
Io credo che l’espressione “niente sarà più come prima”, che abbiamo spesso sentito ripetere durante la pandemia, talvolta con un po’ di esagerazione, quasi come uno scongiuro, possa essere vera per il nostro mondo. Nel senso che abbiamo imparato una modalità non alternativa ma certamente capace di unire e prendere il meglio dalle modalità tradizionali, del vis-à-vis, del dialogo seppure costretto nell’angustia delle agende stracariche di visite: si è riusciti a fare di necessità virtù, valorizzando la distanza, non come una condanna, ma come una possibilità da approfondire.
Che cosa, in particolare?
Abbiamo realizzato che ci sono aspetti e tipologie di informazione che potrebbero non rendere necessaria la visita fisica ma essere valorizzati con altri supporti. Una strategia che però deve imperniarsi sul lavoro locale del professionista-informatore, la cui conoscenza del territorio e dei medici resta essenziale. D’altra parte, anche negli interlocutori medici c’è stata la realizzazione che il supporto di nuove tecnologie possa aumentare il tasso di professionalità della relazione, ottimizzandone i tempi.
Che lezione trae da questa vicenda?
Che il cambiamento richiede un’attitudine mentale, propria dell’impresa. Il cambiamento è un esercizio comune, collettivo, non un discorso. Siamo stati pronti a cambiare, noi che guidavamo l’azienda ma anche i molti, nella rete, che hanno saputo avere l’apertura mentale di mettersi in gioco. E così le aziende nostre partner, come ho detto prima. E a cambiare, a dimostrare di voler cambiare, sono stati i medici i quali avrebbero avuto, a loro volta, mille buone ragioni per dire: “Ne riparleremo quando sarà possibile”. Ma le ragioni del cambiamento sono state più forti. Onore a loro. E a tutti noi.
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Merqurio ci scrive. “Sui corsi di formazione degli informatori frontali in ibridi”. N.d.R.
Ed.: Noi pubblichiamo notizie che possono interessare gli ISF, non per questo vuol dire che sono da noi condivise. Chi ci legge regolarmente avrà visto e letto che abbiamo ribadito più volte che l’ISF da remoto può andare bene solo in un momento emergenziale finito il quale non ha più senso