C’è chi pensa che la salute sia soprattutto un “mercato”, e quindi deve sottostare alle leggi dell’economia. Di questo parere sono sicuramente le multinazionali americane, una potenza “di fuoco” notevole, che influisce sulle scelte sanitarie degli Stati Uniti e di larga parte del Mondo. Italia compresa. È dunque logico che vogliano difendere il loro business, soprattutto nel momento in cui è in forte calo, non tanto, o sicuramente non solo, per loro responsabilità, ma anche per colpa della burocrazia, della frammentazione politica, della lentezza, di scelte “punitive” che durano da anni. Così lo IAPG (Italian American Pharmaceutical Group), che rappresenta le aziende farmaceutiche statunitensi operanti nel nostro Paese, ha riunito in una sede istituzionalmente importante (l’Ambasciata Americana di via Veneto, a Roma), alcuni politici – ministro della Salute compreso – e molti esperti del settore sanitario per lanciare il proprio grido di dolore. Che posso riassumere con una battuta: “Se entro due anni le cose non cambiano, alcune multinazionali lasceranno l’Italia”.
Se ci fosse una forte industria farmaceutica nazionale ed europea, forse una decisione simile non graverebbe molto sulla nostra economia. Fatto sta che le aziende italiane a capitale statunitense registrano 5 miliardi di fatturato, hanno 13 mila dipendenti, di cui 4900 dedicati a ricerca, sviluppo e produzione, investono 460 milioni di euro nella ricerca, ne versano 233 in imposte e tasse, ed esportano per 1,3 miliardi di euro.
Queste cifre, fornite dal chairman dello IAPG, Pierluigi Antonelli, raccontano che il settore farmaceutico ha comunque un valore. Che comunque perde di peso negli ultimi anni. In Italia per ragioni specifiche, mentre altri paesi sono a rischio di abbandono, Grecia, Portogallo, Spagna. Valore che altrove cresce: avanzano sempre di più India e Cina e iniziano a farsi strada, negli studi clinici sui farmaci innovativi, paesi come il Laos, il Vietnam, il Bangladesh.
Ovviamente le multinazionali – che lavorano sull’intero Pianeta – si guardano intorno e investono dove conviene. Da noi si sentono penalizzate a causa della diminuzione progressiva della spesa
farmaceutica pubblica, dei tempi di accesso ai farmaci innovativi (due anni: l’Aifa, agenzia del farmaco, impiega 400 giorni, altri 300 ne servono per l’inserimento nei prontuari regionali, e 60 per entrare negli ospedali), dei lunghissimi tempi per i rimborsi, della riduzione dei prezzi delle medicine (rispetto all’Europa, meno 19 per cento in farmacia e meno dieci in ospedale).
Per uscire dalla crisi le aziende americane hanno indicato una via strategica e in particolare chiedono una moratoria per gli interventi ministeriali nel settore per almeno tre anni (ne sono stati fatti 37 negli ultimi dieci anni), minore frammentazione nei passaggi tra Stato e Regioni, la promozione del sistema Italia all’estero, una politica di promozione a tutela dell’innovazione e del brevetto.
A dire il vero, queste sono le stesse problematiche e richieste di Farmindustria, che associa tutte le farmaceutiche, con una forza lavoro di 65 mila persone, che tuttavia registra un calo di occupazione molto marcato: diecimila dipendenti in meno.
Su alcuni aspetti, le industrie hanno ragione a lamentarsi e a chiedere più certezze, perché sappiamo che le lentezze burocratiche nel nostro Paese, tagliano le gambe ai migliori intenzionati. Ma il lamento – per quanto comprensibile