A che cosa serve la fase IV? Ovviamente la risposta immediata è la farmacovigilanza. Ma non soltanto di questo si tratta. In alcuni casi gli studi successivi all’immissione in commercio possono servire a rafforzare il posizionamento di un prodotto anche senza fare necessariamente riferimento alla tollerabilità e alla sicurezza. E’ il caso, per esempio, del pramipexolo, dopamino-agonista di Boehringer Ingelheim registrato nel 1998 per la cura del Parkinson. Risulta efficace, infatti, oltre che nel controllare i consueti disturbi motori anche nella riduzione dei sintomi depressivi che spesso accompagnano i malati di Parkinson. Inoltre, caso molto raro in farmacologia, si è rivelato utile anche per un’altra malattia, la Sindrome delle gambe senza riposo, ottenendo nel 2006 una seconda indicazione d’uso.
Questo particolare terreno, d’altra parte, ben si presta a questo tipo di ricerca a lungo termine, perché per la malattia di Parkinson si stanno ancora cercando, faticosamente, indizi essenziali: alla diagnosi precoce, al rallentamento della progressione, al controllo di tutto lo spettro sintomatologico.
L’approccio che ha contraddistinto la cura del Parkinson nel secolo scorso era rivolto al controllo dei sintomi motori, i più evidenti e debilitanti, attraverso il potenziamento della trasmissione dopaminergica. Sono diversi i farmaci efficaci da questo punto di vista, a partire dalla L-DOPA, ma tutti gravati da effetti indesiderati e, soprattutto, da una perdita d’efficacia nel lungo periodo, subordinata al progredire della degenerazione neuronale. Il pramipexolo non fa eccezione ma sembra avere una marcia in più: quella di migliorare anche i sintomi depressivi. Una dote non irrilevante dato che, si sta scoprendo ora, la depressione, più o meno grave, è una delle manifestazioni non-motorie più frequente (40-50% dei casi) dei malati di Parkinson. Una depressione poco responsiva al trattamento con i farmaci antidepressivi standard e che riduce drasticamente la qualità di vita dei malati, indipendentemente dalla gravità della loro compromissione motoria. E questo è un altro indizio importante perché la depressione, oltre a rappresentare un fattore di comorbidità importante potrebbe essere, in alcuni pazienti, un segno precoce di Parkinson. Inoltre, riuscire a controllare i sintomi depressivi potrebbe anche essere un modo per modificare la progressione della malattia. Tutte ipotesi ancora al vaglio della ricerca che, oggi, può affidarsi anche ad una più evoluta tecnica d’imaging, la SPECT con beta-CIT come marcatore, capace di evidenziare la rapida perdita centrale del trasportatore della dopamina.
Questo particolare terreno, d’altra parte, ben si presta a questo tipo di ricerca a lungo termine, perché per la malattia di Parkinson si stanno ancora cercando, faticosamente, indizi essenziali: alla diagnosi precoce, al rallentamento della progressione, al controllo di tutto lo spettro sintomatologico.
L’approccio che ha contraddistinto la cura del Parkinson nel secolo scorso era rivolto al controllo dei sintomi motori, i più evidenti e debilitanti, attraverso il potenziamento della trasmissione dopaminergica. Sono diversi i farmaci efficaci da questo punto di vista, a partire dalla L-DOPA, ma tutti gravati da effetti indesiderati e, soprattutto, da una perdita d’efficacia nel lungo periodo, subordinata al progredire della degenerazione neuronale. Il pramipexolo non fa eccezione ma sembra avere una marcia in più: quella di migliorare anche i sintomi depressivi. Una dote non irrilevante dato che, si sta scoprendo ora, la depressione, più o meno grave, è una delle manifestazioni non-motorie più frequente (40-50% dei casi) dei malati di Parkinson. Una depressione poco responsiva al trattamento con i farmaci antidepressivi standard e che riduce drasticamente la qualità di vita dei malati, indipendentemente dalla gravità della loro compromissione motoria. E questo è un altro indizio importante perché la depressione, oltre a rappresentare un fattore di comorbidità importante potrebbe essere, in alcuni pazienti, un segno precoce di Parkinson. Inoltre, riuscire a controllare i sintomi depressivi potrebbe anche essere un modo per modificare la progressione della malattia. Tutte ipotesi ancora al vaglio della ricerca che, oggi, può affidarsi anche ad una più evoluta tecnica d’imaging, la SPECT con beta-CIT come marcatore, capace di evidenziare la rapida perdita centrale del trasportatore della dopamina.
In pratica il farmaco ha allargato la potenziale platea di pari passo con l’avanzamento delle conoscenze della malattia, cosa che non sarebbe stata possibile senza gli studi post-marketing. Una strategia, ha ricordato Alessandro Banchi, resa possibile anche dalla struttura dell’azienda, più libera nella scelta degli indirizzi da seguire perché meno vincolata alla presentazione di un utile all’azionista (e anche per questo meno soggetta alle altalene borsistiche).
Da "PharmaMarketing"