Indennità di licenziamento: la Consulta boccia il Jobs Act
La Corte: l’indennità crescente per la sola anzianità di servizio è “contraria ai princìpi di ragionevolezza e di uguaglianza e contrasta con il diritto e la tutela”. Camusso: importante e positivo, ora ripristinare e allargare l’articolo 18. Il ricorso
rassegna.it – 26 settembre 2018
In particolare, secondo la Corte, la previsione di un’indennità crescente in ragione della sola anzianità di servizio del lavoratore è “contraria ai princìpi di ragionevolezza e di uguaglianza e contrasta con il diritto e la tutela del lavoro” sanciti dagli articoli 4 e 35 della Costituzione. La sentenza sarà depositata nelle prossime settimane.
La bocciatura arriva “su ricorso di una lavoratrice sostenuto dalla Cgil”, è il primo commento del sindacato di corso d’Italia su twitter: “Una delle nostre tante azioni di contrasto al Jobs Act”.
“Dalla Corte Costituzionale è arrivata una decisione importante e positiva, che dichiara illegittimo il criterio di determinazione dell’indennità di licenziamento come previsto dal Jobs Act sulle tutele crescenti e non modificato nell’intervento del decreto dignità. Nelle prossime settimane avremo modo di commentare nel dettaglio la decisione, tuttavia quanto stabilito oggi dalla Corte, a seguito di un rinvio del Tribunale di Roma su una causa per licenziamento illegittimo promossa dalla Cgil, è un segnale importante per la tutela della dignità dei lavoratori”. Così il segretario generale, Susanna Camusso.
“Un sistema – sottolinea la leader della Cgil – irragionevole e ingiusto, che calpesta la dignità del lavoro e che permette di quantificare preventivamente il costo che un’azienda deve sostenere per ‘liberarsi’ di un lavoratore senza avere fondate e reali motivazioni. Vale a dire quello che potremmo definire la rigida monetizzazione di un atto illegittimo”.
La Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo l’articolo 3 comma 1 del decreto legislativo n 23/2015 sul contratto di lavoro a tutele crescenti che definisce in modo rigido l’indennità spettante al lavoratore ingiustamente licenziato. La previsione di una indennità “risarcitoria” crescente in ragione della sola anzianità di servizio è secondo la Consulta contraria ai principi di ragionevolezza e di uguaglianza e contrasta con il diritto e la tutela del lavoro sanciti dagli articoli 4 e 35 della Costituzione. In parole povere uno dei cardini del cosiddetto Jobs Act è, secondo i giudici della Suprema Corte, incostituzionale.
IL RICORSO
La vertenza riguarda il licenziamento di una pasticcera che si era rivolta agli uffici della Cgil di Roma Nord, dopo essere stata allontanata dal posto di lavoro nel dicembre del 2015 per motivi economici. Dopo l’impugnativa del licenziamento, l’azienda ha disertato le convocazioni formali, e i legali, Carlo De Marchis e Amos Andreoni, che assistevano la lavoratrice ne hanno chiesto la reintegra. Lo rende noto la Filcams.
“Riteniamo questa sentenza di assoluta rilevanza perché conferma il giudizio negativo che come Filcams e come Cgil abbiamo fin da subito espresso, rispetto ad una norma iniqua che pone il lavoratore alla mercè del datore di lavoro, impedendo anche alla magistratura di compiere appieno il suo compito di valutazione dei fatti. Un primo passo verso la riassegnazione del valore di dignità e tutela del lavoro è stato compiuto. Questo passo si va ad aggiungere a quelli che tramite accordi collettivi hanno difeso l’articolo 18 e di cui la nostra categoria, a partire dal settore degli appalti e del turismo, si è resa protagonista in questi anni.” Lo dichiara Cristian Sesena, segretario nazionale responsabile del mercato del lavoro e del settore turismo pubblici esercizi.
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Un’altra sentenza che supera il Jobs Act
Ed.: Per gli assunti pre Jobs Act l’indennità varia dalle 12 alle 24 mensilità della retribuzione percepita dal dipendente.
Prima di questa sentenza della Corte Costituzionale, per gli assunti post Jobs Act, invece, la legge prevedeva un’indennità fissa che aumenta con l’aumentare degli anni di anzianità, pari a due mensilità della retribuzione percepita dal dipendente per ogni anno di servizio, con un minimo di 6 ed un massimo di 36 mensilità (ampliate dal Decreto Dignità). La Corte Costituzionale però ha dichiarato illegittimo questo criterio di quantificazione impostato solo sull’anzianità di servizio rendendo il giudice più libero di determinare l’indennità secondo la propria discrezionalità.
Uno dei motivi di illegittimità indicati dalla Suprema Corte è la violazione dell’Art. 3 della Costituzione in quanto il Jobs Act in questo caso viola il “principio di uguaglianza, differenziando fra vecchi e nuovi assunti” con la conseguenza che “coesistono fattualmente nella stessa organizzazione dipendenti diversamente tutelati pur a fronte della stipulazione di un identico contratto di lavoro”
Se consideriamo che gli assunti pre 7 marzo 2015 hanno una disciplina più protettiva [Article 18, Legge n. 300/1970 per le aziende più grandi; Articolo 8, Legge n. 604/1966 per le aziende più piccole] mentre gli assunti post 7 marzo 2015 con il cosiddetto Jobs Act hanno una disciplina meno protettiva [D. Lgs. n. 23/2015], non viene violato anche in questo caso il principio di uguaglianza? E non è allora anticostituzionale tutto il Jobs Act?
Comunque sia il Jobs Act privato della sua norma cardine non ha più senso di essere e si impone dunque al Legislatore una completa riscrittura della materia.
Il ché può significare l’abolizione del contract with increasing protections ed il ritorno alle tutele dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori oppure la riscrittura del Jobs Act che tenga conto dei principi espressi dalla Consulta. Questa sentenza cancella anche l’intera filosofia di fondo su cui si basava la controriforma sul lavoro del Jobs Act