Quella del Glivec è una vecchia storia che non riguarda solo i rapporti tra uno Stato tra i più importanti al mondo, come l’India, e un’azienda farmaceutica tra le prime del Pianeta, come la Novartis. Coinvolge anche le politiche industriali di Big Pharma. E più in particolare le mosse compiute dalla Novartis prima di far diventare il Glivec quello che oggi rappresenta.
Negli anni Novanta del secolo corso, l’azienda si mosse all’inizio con molta riluttanza nei confronti di questo prodotto. Solo in seguito al lavoro compiuto da un ricercatore pubblico, si rese conto che la molecola base del farmaco, l’imatinib mesilato, funzionava, decidendo così di investire parecchi soldi in ricerca e sviluppo perché aveva capito l’importanza della sua utilità. Il Glivec venne poi approvato dalla Fda nel 2001. Ed è realmente innovativo, e soprattutto efficace contro una rara forma di leucemia, la mieloide.
Su questo farmaco la Novartis ha costruito la propria fortuna, soprattutto dal punto di vista dell’immagine, perché i malati, prima dell’arrivo del Glivec, avevano a disposizione solo il trapianto di midollo osseo, molto pericoloso, sempre che ci fosse un donatore compatibile. La Novartis investì parecchio in comunicazione, puntando direttamente sulla possibilità del farmaco di curare un cancro altamente mortale.
Andando all’attualità, non entro nel merito del processo perché non conosco a fondo le posizioni delle parti. Viene da pensare che – al di là della sentenza sullo sfruttamento di una molecola già nota – abbia prevalso la questione etica: l’accesso alle cure e il diritto di tutti alla salute. Da questo punto di vista l’aspetto economico ha sicuramente inciso perché la cura del Glivec della Novartis costa 1700 dollari al mese; quella del farmaco generico indiano 170 dollari al mese: il 90 per cento in meno.
A questo proposito la Novartis si era impegnata a suo tempo in una politica di forti sconti per i paesi più poveri. Ma in realtà quel piano funzionò relativamente e solo pochissimi pazienti riuscirono ad avere il farmaco gratis.
Tuttavia va ricordato che se noi possiamo contare su medicine efficaci, anche straordinarie, questo si deve alla ricerca e allo sviluppo dell’industria e delle università (soprattutto nordamericane). Comunque sono poi le aziende a dettar legge e ad imporre – anche se oggi si tende a trovare un accordo tra istituzioni sanitarie pubbliche e industrie farmaceutiche – un determinato prezzo sul mercato globale.
C’è comunque una questione fondamentale: l’innovazione. Perché le medicine davvero nuove ed efficaci – come ricordava Marcia Angell, ex direttrice del New England Journal of Medicine, nel suo “Farma&Co” -, non superano il 15 per cento del totale di quelle immesse sul mercato.
Spesso una furba politica di marketing di Big Pharma fa apparire innovativo un farmaco che tale non è: spesso si tratta di un prodotto “riciclato”. Si sa che le aziende tendono a sfruttare al massimo i brevetti già sul mercato. Cosa che assicura maggiori profitti. Loro si difendono con gli alti costi della ricerca. Cosa peraltro indiscutibile: per arrivare ad un prodotto nuovo servono almeno 500 milioni di euro di investimento. Ma se nel costo del farmaco ci va anche la scandalosa buona uscita da 60 milioni di euro per l’ex capo della Novartis (che fino ad oggi ha guadagnato già 320 di milioni), allora c’è più di un motivo per indignarsi e per stare dalla parte dell’India che vuole commercializzare il