Il mestiere di medico nell’era industriale
I tempi sono maturi per affrontare questo nodo non solo nella ricerca ma anche nella pratica clinica, tenendolo ben distinto dal comparaggio e dagli episodi di cronaca che riportano periodicamente alla ribalta sporadici comportamenti illeciti con gravi risvolti penali.
Il conflitto di interessi in quanto tale è una condizione, non una scorrettezza, ed è considerato quasi universalmente inevitabile, per una professione che si colloca ormai all’interno di un articolato sistema economico. Altre professioni, su cui grava una responsabilità morale senz’altro inferiore ma che non hanno legami industriali altrettanto stretti, hanno scelto la strada drastica di considerare incompatibile ogni interesse conflittuale: un avvocato non può difendere un cliente ed essere insieme consulente della controparte. Forse, molto tempo fa, anche i medici avrebbero potuto decidere di impostare in questo modo i loro rapporti con un’industria ancora sul nascere. Forse si è persa l’occasione di conservare intatta la fiducia del pubblico, che oggi rischia di subire incrinature insanabili. Ma comunque oggi è troppo tardi per una mossa così radicale: se non impossibile in via teorica, un taglio netto sarebbe sicuramente molto difficile da perseguire in pratica.
Molti medici, soprattutto tra gli specialisti, vivono ormai un conflitto intrinseco — ancor prima che imposto da imprudenti legami economici — tra i doveri professionali e il tornaconto personale, di cui spesso non si rendono conto.
Un urologo, per fare un esempio, non ha bisogno di ricevere prebende dall’industria per convincersi a prescrivere diffusamente il dosaggio del PSA anche in chi non ha sintomi. Lo fa spesso spontaneamente, anche senza prove prova di efficacia e di innocuità, spinto in buona fede dall’intenzione di prevenire , ma anche dal desiderio di allargare il proprio campo di attività. In generale tutte le forme di interventismo e di medicalizzazione generano, oltre che profitti per l’industria della salute, altre richieste di prestazioni e nuovi clienti per gli specialisti del settore, per effetto di quella cascata clinica che è stata ben descritta già da tempo. Si crea così un’alleanza spontanea tra tutti coloro che, nel mondo industriale come in quello clinico, hanno interesse ad ampliare la propria attività. Il conflitto interiore dei singoli medici si riflette nelle istituzioni che li rappresentano, società scientifiche o altro, dove anzi si amplifica, per l’allentarsi e il diluirsi dell’obbligazione morale verso i pazienti. I quali a loro volta, quando si associano, rischiano di riprodurre un conflitto simile, in parte per subalternità culturale, in parte per compromessi d’interesse economico, ma anche per il prevalere di una logica auto referenziale, che privilegia la visibilità dei risultati (tanti nuovi farmaci, tanti nuovi esami) sulla loro reale utilità.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Altro che conflitt si fa avanti una potente sintonia di interessi che accomuna tutti gli attori in gioco, spingendo come un sol uomo verso una sempre più invadente medicalizzazione della società.
Contro questa prospettiva, si manifesta oggi un risveglio della cultura professionale ed etica, soprattutto laddove s minori sono i fattori materiali che determinano un conflitto intrinseco, tra l’obbligo di agire per il bene del paziente e gli altri interessi secondari. Non a caso, sono soprattutto i medici di famiglia che si esprimono spesso in maniera critica, attraverso le loro organizzazioni e i loro esponenti più consapevoli, nei confronti degli eccessi e dell’invadenza della medicina. Le ragioni di questo atteggiamento controcorrente sono numerose, ma si possono ricondurre a due elementi principali. Il primo è culturale, e deriva da una impostazione più centrata sul pazie
I tempi sono maturi per affrontare questo nodo non solo nella ricerca ma anche nella pratica clinica, tenendolo ben distinto dal comparaggio e dagli episodi di cronaca che riportano periodicamente alla ribalta sporadici comportamenti illeciti con gravi risvolti penali.
Il conflitto di interessi in quanto tale è una condizione, non una scorrettezza, ed è considerato quasi universalmente inevitabile, per una professione che si colloca ormai all’interno di un articolato sistema economico. Altre professioni, su cui grava una responsabilità morale senz’altro inferiore ma che non hanno legami industriali altrettanto stretti, hanno scelto la strada drastica di considerare incompatibile ogni interesse conflittuale: un avvocato non può difendere un cliente ed essere insieme consulente della controparte. Forse, molto tempo fa, anche i medici avrebbero potuto decidere di impostare in questo modo i loro rapporti con un’industria ancora sul nascere. Forse si è persa l’occasione di conservare intatta la fiducia del pubblico, che oggi rischia di subire incrinature insanabili. Ma comunque oggi è troppo tardi per una mossa così radicale: se non impossibile in via teorica, un taglio netto sarebbe sicuramente molto difficile da perseguire in pratica.
Molti medici, soprattutto tra gli specialisti, vivono ormai un conflitto intrinseco — ancor prima che imposto da imprudenti legami economici — tra i doveri professionali e il tornaconto personale, di cui spesso non si rendono conto.
Un urologo, per fare un esempio, non ha bisogno di ricevere prebende dall’industria per convincersi a prescrivere diffusamente il dosaggio del PSA anche in chi non ha sintomi. Lo fa spesso spontaneamente, anche senza prove prova di efficacia e di innocuità, spinto in buona fede dall’intenzione di prevenire , ma anche dal desiderio di allargare il proprio campo di attività. In generale tutte le forme di interventismo e di medicalizzazione generano, oltre che profitti per l’industria della salute, altre richieste di prestazioni e nuovi clienti per gli specialisti del settore, per effetto di quella cascata clinica che è stata ben descritta già da tempo. Si crea così un’alleanza spontanea tra tutti coloro che, nel mondo industriale come in quello clinico, hanno interesse ad ampliare la propria attività. Il conflitto interiore dei singoli medici si riflette nelle istituzioni che li rappresentano, società scientifiche o altro, dove anzi si amplifica, per l’allentarsi e il diluirsi dell’obbligazione morale verso i pazienti. I quali a loro volta, quando si associano, rischiano di riprodurre un conflitto simile, in parte per subalternità culturale, in parte per compromessi d’interesse economico, ma anche per il prevalere di una logica auto referenziale, che privilegia la visibilità dei risultati (tanti nuovi farmaci, tanti nuovi esami) sulla loro reale utilità.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Altro che conflitt si fa avanti una potente sintonia di interessi che accomuna tutti gli attori in gioco, spingendo come un sol uomo verso una sempre più invadente medicalizzazione della società.
Contro questa prospettiva, si manifesta oggi un risveglio della cultura professionale ed etica, soprattutto laddove s minori sono i fattori materiali che determinano un conflitto intrinseco, tra l’obbligo di agire per il bene del paziente e gli altri interessi secondari. Non a caso, sono soprattutto i medici di famiglia che si esprimono spesso in maniera critica, attraverso le loro organizzazioni e i loro esponenti più consapevoli, nei confronti degli eccessi e dell’invadenza della medicina. Le ragioni di questo atteggiamento controcorrente sono numerose, ma si possono ricondurre a due elementi principali. Il primo è culturale, e deriva da una impostazione più centrata sul pazie