Ha già cominciato a far discutere, e lascerà quasi certamente un segno, l’ordinanza del Tribunale del riesame di Roma che, il 2 settembre, ha disposto il dissequestro di una fornitura di farmaci anti-epatite, acquistata via internet in India e bloccata a giugno dalla dogana di Ciampino. A effettuare l’ordine – secondo quanto riferiva ieri un articolo del quotidiano Republic – un malato di Hcv che non era stato ammesso alla prima campagna di somministrazione del sofosbuvir, avviata un anno e mezzo fa; anziché attendere, quest’estate l’uomo aveva contattato via internet un rivenditore indiano, gli aveva inviato regolare ricetta medica e aveva acquistato alcune confezioni del farmaco Harvoni nella versione generica (prezzo quasi venti volte inferiore al branded), che si era poi fatto spedire. Quindi, saputo che a giugno il pacco era stato bloccato a Ciampino, si era rivolto al Tribunale per ottenere il dissequestro.
Da quanto riferisce un lancio dell’Adnkronos, il giudice avrebbe accolto la tesi del malato secondo la quale l’acquisto dall’estero non costituisce illecito perché il farmaco è destinato a uso personale. Il d.lgs 219/2006, infatti, vieta la «commercializzazione» di farmaci importati senza autorizzazione. E la fornitura acquistata, dietro regolare prescrizione di un medico italiano, serve a coprire soltanto un mese di terapia.
La decisione del Tribunale ha subito raccolto i commenti soddisfatti delle associazioni di malati e consumatori. Per EpaC onlus, in particolare, «l’ordinanza è interessante perché sancisce un concetto importante: il farmaco importato e regolarmente prescritto da un medico italiano per la cura dell’epatite C non può essere considerata un’importazione a fini commerciali, ma esclusivamente a uso personale». Federconsumatori, addirittura, parla di un «pronunciamento importante, che introduce una modifica necessaria alle regole del commercio dei farmaci».
Ma è davvero così? Dall’Aifa per ora non arrivano commenti ufficiali, in attesa di avere sul caslo un quadro completo ed esaustivo, ma in via informale si ricorda che le norme italiane ammettono sì l’importazione per fini terapeutici di farmaci non autorizzati in Italia (peraltro, nelle modalità definite dettagliatamente dal dm 11 febbraio 1997), ma ne escludono la vendita. In altri termini, l’illecito non è del malato ma del rivenditore. Il quale, secondo quanto stabiliscono la legislazione italiana e quella europea sull’e-commerce farmaceutico, è tenuto a vendere alle condizioni del Paese di destinazione. Ed è proprio sulla base di tale divieto che, ogni anno, Aifa e forze di polizia sequestrano negli aeroporti migliaia e migliaia di medicinali, a prescindere dalla destinazione finale (rivendita o uso personale).
E’ anche probabile poi che all’Aifa, dove sono ben note le relazioni che legano online e farmaci contraffatti, si sia subito colto il paradosso del caso: un paziente importa dall’India un farmaco non autorizzato per difendere il proprio diritto alla salute, ma lo fa usando canali e rivolgendosi a Paesi dove notoriamente circolano farmaci “taroccati” che sono un serio rischio per quella stessa salute. Come ricorda il Pharmaceutical security institute, il 32% dei farmaci contraffatti non contiene principio attivo, il 21,4% è composto da ingredienti sbagliati, l’8,5% contiene alti livelli di impurità e contaminanti. Certo il rischio si azzererebbe se acquisti e importazioni fossero fatti dalle autorità nazionali, previa autorizzazione del generico indiano. Oppure se l’Aifa rinegoziasse il prezzo del branded per consentire la somministrazione delle terapie a tutti i malati, almeno mezzo milione.
(AS – 22/09/2016 . Federfarma)
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