Cephalon, considerata una delle più interessanti società biotech al mondo, lunedì scorso è passata di mano. L’israeliana Teva (anche lei quotata al Nasdaq) ha offerto 8 miliardi di dollari, battendo di oltre due miliardi l’offerta ostile della rivale Valeant. Per effetto di questo braccio di ferro, il titolo della Cephalon (il nome "cervello" deriva dalla sua vocazione nelle patologie neurovegetative) è passato in un mese da 58 a 80 dollari. È il meglio che un investitore possa sperare.
La grande industria farmaceutica, la cosiddetta Big Pharma, ha perso da tempo il tocco magico. Numerosi blockbuster (come in gergo si chiamano i farmaci capaci di fatturare almeno un miliardo di dollari all’anno) hanno il brevetto prossimo alla scadenza, e l’anno scorso soltanto 21 molecole sono uscite dal faticoso processo di approvazione, che può durare dieci anni e costare un miliardo di dollari. In America, il primo mercato mondiale, l’industria deve affrontare le incognite di una riforma sanitaria pendente. E, come risultato, la performance borsistica del settore negli ultimi dieci anni è stata solo lo spettro di quella nei dieci anni precedenti. Il valore a Wall Street della numero uno Pfizer, tanto per fare un esempio, è cresciuto del 1.270% nel decennio 1991-2000 e si è dimezzato in quello successivo.
Mentre Big Pharma risponde tagliando i costi e aumentando i dividendi per cercare di attrarre gli investitori, la ricerca – fatalmente – rallenta. E così, l’unico modo per aumentare in fretta i farmaci in portafoglio, magari già approvati o vicini a esserlo, è quello di mangiarsi le più snelle società che hanno cavalcato meglio la rivoluzione biotecnologica. Come Cephalon. O come Genzyme, comprata l’anno scorso dalla francese Sanofi Aventis per la non modica cifra di 20 miliardi di dollari. Secondo Evaluate Pharma, una società di analisi del settore farmaceutico, da febbraio a oggi sono state annunciate undici operazioni di fusione o acquisizione. Il mercato se ne aspetta delle altre.
Se una volta i farmaceutici venivano considerati dagli investitori come titoli sicuri per il lungo termine, oggi la prospettiva è cambiata: si gioca sulla loro volatilità. Da inizio anno, la performance borsistica dei big player non è andata così male: sempre a Wall Street (dove le case farmaceutiche non americane quotano i cosiddetti Adr) Sanofi ha guadagnato il 23%, Pfizer il 20, Glaxo l’11 e Astra Zeneca l’8 per cento (con Merck e Novartis praticamente a zero). Ma è tutto grazie a un rally del settore che, da metà marzo, ha sospinto tutti verso l’alto. Forse anche grazie alla politica dei dividendi. La Pfizer, guidata dal nuovo Ceo Ian Read, ha appena annunciato il 290esimo dividendo trimestrale consecutivo.
Che lo scenario sia in evoluzione, lo si capisce da un semplice fatto: i due farmaci più venduti al mondo come il Lipitor (rimedio anticolesterolo della Pfizer che nel 2010 ha fatturato 10,7 miliardi) e il Plavix (anticoagulante di Sanofi, 9,43 miliardi di dollari) non sono rappresentati nella top ten al 2014, basata sulle previsioni degli analisti. Il loro tempo è scaduto. Al loro posto, si prevede che saliranno l’antitumorale Avastin della Roche (che l’anno scorso era in ottava posizione, con 6,22 miliardi di ricavi) e l’Humira di Abbott. Seguono altri parvenu, come Enbrel (artrite, di Pfizer e di Amgen, il colosso biotech), Crestor (colesterolo, AstraZeneca) e Remicade (artrite, J&J e Merck). Semmai, dalle previsioni sui top ten dei prossimi tre anni, spicca il nome di Roche, che oltre all’Avastin, dovrebbe beneficiare dalle vendite di altri due blockbuster antitumorali: Rituxan (che è gi&agrav