Storia dell’informatore scientifico pakistano che dopo aver lavorato per Nestlé (nel film Lasta Vita, nome fittizio per una delle 13 multinazionali che in Pakistan vendono latte in polvere per neonati e altri farmaci, a discapito dei molto meno cari ma efficaci prodotti locali), e aver scoperto che le morti di centinaia di migliaia di neonati eran causate dal latte in polvere che lui stesso aveva così tanto diffuso comprandosi i medici. In anteprima a Firenze il film del premio Oscar dedicato alla figura dell’informatore pakistano che ha svelato il sistema di mazzette che stanno dietro alla diffusione del latte in polvere nel suo paese.
R.it Spettacoli – di PAOLO RUSSO – Aggiornato il
La strage degli innocenti. È un’altra storia vera pure quella di Tigers che, applaudito ai festival di Toronto, San Sebastian e Dubai, sabato 7 è in prima italiana all’Odeon di Firenze. Tanovic non ci sarà, ma in compenso arriva Syed Aamir Raza. Ovvero l’informatore scientifico pakistano che dopo aver lavorato per Nestlé (nel film Lasta Vita, nome fittizio per una delle 13 multinazionali che in Pakistan vendono latte in polvere per neonati e altri farmaci, a discapito dei molto meno cari ma efficaci prodotti locali), e aver scoperto che le morti di centinaia di migliaia di neonati erano causate dal latte in polvere che lui stesso aveva così tanto diffuso comprandosi i medici, trovò a fine Ottanta la forza di denunciare la multinazionale. Non solo per il monopolio assoluto costruito, là come altrove, da Big Pharma, la centuria dei colossi planetari del farmaco, su corruzione e regalie ai medici, quanto perché la reazione chimica fra quel latte in polvere e l’acqua spesso impura dei villaggi pakistani era, senza che Nestlé avesse mai informato nessuno della micidiale certezza, la vera responsabile delle morti dei piccoli. Ha dunque un senso preciso che Tanovic apra il film col sonoro di una seduta della commissione del senato Usa in cui, già nel ’78, Ted Kennedy incalza su identici fatti il numero uno d’una major di alimenti per neonati. “Una storia vecchia? Sbagliato – attacca il regista – accadeva in Africa e Asia trent’anni fa e vi accade ancora oggi. Ho cinque figli e sapevo qualcosa appena del problema ma quando ho sentito che ancora succede e così tragicamente, non potevo crederci. La mia prima volta in Pakistan è stata un enorme shock”. Quella storia l’ha così colpito che Tanovic ha atteso dal 2006 al 2013 pur di girarla. Nella speranza di imporla all’attenzione di un mondo in cui la salute, come l’ingiustizia centrale nel cinema di Tanovic, è sempre più privilegio per pochi benestanti. E mettendo così sotto accusa, con misura esemplare, la cecità ingorda di una società globale in cui i più indifesi, i piccoli dei più poveri nei paesi più poveri, non hanno alcun accesso a questo diritto umano fondamentale.
La fuga dei finanziatori. “L’Organizzazione mondiale della sanità stima che ogni anno muoiono nel mondo 1,5 milioni di bambini perché non vengono allattati al seno: le madri dovrebbero farlo, anche perché col latte in polvere non gli trasmettono gli anticorpi contro diarrea e disidratazione che li uccidono. Il latte in polvere occidentale là circola da una trentina d’anni, esercitando anche sui più derelitti un fascino irresistibile per via del marketing col quale viene promosso, del packaging attraente e del fatto stesso di venire dall’occidente essendo perciò migliore per definizione. E quando si tratta di salute, specie quella dei bambini, anche gli emarginati spendono tutto il poco che hanno pur di non far mancare nulla, pensano loro, ai propri neonati. Ho passato otto anni per fare il film e, viste le pesanti pressioni delle multinazionali e la fuga di tanti possibili finanziatori, oramai disperavo di riuscirci. D’altronde non è roba sexy, ci vuole del fegato per fare un film così. In un primo tempo la BBC era d’accordo a fare un documentario sulle strategie Nestlé in Pakistan ma nel 2006, a un passo dalle riprese, mi chiesero di cambiare il nome dell’azienda. Poi dissero che, anche facendolo, potevamo essere lo stesso citati in giudizio e lasciarono il progetto. In seguito scoprimmo da un nastro della tv tedesca ZDF, che stava girando un documentario su Raza, come lui avesse parlato, ma in realtà mai preso, con Nestlé di una bustarella e ci bloccammo di nuovo. In realtà fu costretto a fare una telefonata pensata apposta per impaurirlo e distruggerne la credibilità. Anche io ero distrutto. Finché a Venezia incontrai Anurag Kashyap (uno dei più importanti giovani registi e produttori del nuovo cinema indiano, ed) e quando gli dissi della sceneggiatura scritta con Andy Paterson che però nessuno era tanto folle da produrre, lui mi indicò Guneet Monga (altra produttrice di spicco della nouvelle vague indiana, ed) dicendo ‘se c’è una così pazza da farlo è lei’. E così ce l’abbiamo fatta”.
Emraan Hashmi, da Bollywood all’impegno. Ne è venuta fuori una produzione anglo-franco-bosniaco-indiana di tutto rispetto. Girata in India, Germania e Inghilterra per il fondato timore di ritorsioni; d’altronde Raza era dovuto fuggire in Canada, dove oggi fa il tassista e vive con la famiglia, per le minacce di morte a lui, ai parenti e agli amici. Una produzione che si è giustamente anche preoccupata di dare un certo, discreto appeal ad un film per forza duro ma che sullo shock privilegia la riflessione. Ed ecco allora la bella perché autentica colonna sonora di Pritam, oltre cento le sue per cinema e tv, una sorta di giovane Morricone d’India o se preferite di Teho Teardo, e la presenza nell’ottimo cast di Emraan Hashmi, giovane idolo di Bollywood al debutto in un ruolo impegnato, che ha saputo virare ottimamente il suo charme di “serial kisser”, così lo chiamano a casa, nelle facce ora grintose ora disperate, speranzose o distrutte di Ayan, il personaggio forgiato su Raza. Una storia complessa per un film altrettanto complesso, che nella sua struttura a scatole cinesi ne contiene altre mille. Una tragedia immane che Tanovic accosta assai bene, però privilegiandola, alle vicende personali dei tanti personaggi coinvolti a partire da Ayan-Raza. Del quale il film rivela la pur temporanea adesione alla militare aggressività di certa cultura aziendale in nome del proprio riscatto economico, il suo terrestre vacillare davanti alla mazzetta Nestlé, facendone così un uomo fallibile, salvato però da una solida, laica pietas, e non l’eroe che ci si poteva aspettare. E come resistere alla dolcezza della sua arcaica, adorabile famiglia che vede sempre uniti, a dispetto della tremenda situazione, il vecchio padre saggio, testardo e di solida, tenera umanità, la madre gioiosa e inesauribile, la giovane moglie, bella quanto coraggiosa e incorruttibile.
Un avvincente thriller etico. Scritto con sagacia, girato per lo più in piani medi e americani, spesso addosso ai protagonisti, alternando inquadrature di gran pregio (su tutte la sequenza del matrimonio di Ayan-Raza e Zhainab, l’intensa Geetanjali Thapa) ad altre anonime, brutali, montato con esemplari cambi di ritmo, capace di dare ugual profondità ai cattivi come ai buoni, Tigers è una avvincente thriller etico. Un documentario in noir nel quale investigazione e ricerca del colpevole scandiscono le tappe dell’estenuante catarsi di Ayan-Raza, piccolo uomo con poche chance, della condanna senz’appello dei potenti occidentali e dei loro sicari pakistani. Addestrati, come si vede nel film, da un molto americano manager-marine ad aggredire mercato e concorrenti ruggendo come le tigri del titolo. Mostra, il film, con fermezza che basta a se stessa, la palude di corruzione e speculazione che della sciagura di tanti piccoli innocenti continua a fare la fortuna dei già fantascientifici bilanci di Big Pharma, certo non meno potente delle petrolifere “sette sorelle” né meno spietata. Fra tanti episodi, basterà ricordare che lo Herald Tribune – non un foglio bolscevico ma l’edizione europea del New York Times – raccontava, solo pochi anni fa, come le multinazionali del farmaco si fossero rifiutate di rinunciare alle royalties sugli antiretrovirali contro l’Aids diffusi in Africa. Dove la malattia insiste anche perciò indisturbata a fare strage, dato che i suoi paesi non hanno i denari per pagarli né cultura e risorse per farseli, come in India, da soli. Con buona pace di Big Pharma. A differenza delle “sette sorelle” petrolifere però, i colossi del farmaco sono infinitamente meno esplorati e visitati dai media, così come non fanno parte della narrazione corrente del mondo cui apparteniamo. Non stupisce più allora che, malgrado i successi di critica, Tigers – vale ripeterlo: un magnifico film anche in senso squisitamente cinematografico – sia ancora in attesa, da noi per certo, probabilmente pure altrove, di un distributore. Perché il cinema, per esser fatto ma anche fatto vedere, ha bisogno di coraggio.