Starà pure «un falso mito», com’era il titolo di un convegno organizzato ad aprile dal Ministero della Salute, dedicato a sfatare tutti quelli sul mondo della sanità, fatto sta che le preoccupazioni per l’impatto sulla spesa dei farmaci innovativi da parte delle Istituzioni non mancano e anzi vengono continuamente ribadite. E non sono solo riferite ai costi della terapia per l’Epatite C, ma anche, come ha dichiarato recentemente il Ministro Beatrice Lorenzin in una intervista per gli oncologici, dei quali si attendono nuovi ingressi in commercio. Intanto, con la Legge di Stabilità, per gli anni 2015-2016 è stato previsto un fondo da un miliardo di euro, ma l’impressione è che la coperta sia comunque troppo corta, e il rischio è che si arrivi a situazioni come quella denunciata dal Tribunale per i diritti del malato – Cittadinanzattiva nell’ambito del programma “Epatite, C Siamo!” – che mette a disposizione un sito web e un servizio telefonico per orientare i cittadini affetti da Epatite C – e ribadito da Pierpaolo Vargiu, allora Presidente della Commissione Affari Sociali della Camera, in un’interrogazione al Ministro, di Regioni che faticano a garantire l’accesso al farmaco in maniera uniforme. E in tema di prezzi sui farmaci negli Usa un gruppo di 118 oncologi stanno avanzando una proposal per abbatterli: tra gli altri aspetti creare un meccanismo di revisione post marketing che proponga un prezzo equo per i nuovi trattamenti. Ma sui costi, abbiamo avviato una riflessione andando a sentire Silvio Garattini, fondatore e Direttore dell’IRCCS Istituto di Ricerche Farmacologiche “Mario Negri”.
Professore, farmaci innovativi sempre più cari?
Sul tema si possono fare diverse considerazioni, a seconda che si focalizzi l’attenzione su anti-tumorali o su farmaci quali quello per la cura dell’Epatite C. Partiamo dalla prima tipologia: rispetto all’andamento del fatturato generale dell’industria farmaceutica di questi ultimi anni, risulta evidente che a trainare la crescita sono i farmaci oncologici: se si analizza il dato scorporando tale categoria, l’incremento di fatturato appare relativamente modesto, mentre, sommando tali farmaci, il valore riceve un’impennata. È chiaro, quindi, che sono in particolare gli antitumorali a determinare quel continuo aumento nella spesa farmaceutica ospedaliera a cui si assiste in vari paesi, tra cui l’Italia, dove peraltro si è riusciti a contenere leggermente la voce della territoriale. Una prima questione che si può porre è allora se il prezzo dei farmaci, così come l’aumento di incidenza sulla spesa sanitaria, sia giustificato dai vantaggi in termini di efficacia. Ci sono diversi studi che hanno messo in luce come un effetto significativo sia rilevabile in una parte di questi, mentre nella stragrande maggioranza dei casi (per circa una quarantina) si tratta di prodotti che aumentano la sopravvivenza di qualche mese, peraltro talvolta con una cattiva qualità di vita, legata agli impattanti effetti collaterali e tossici. La valutazione è tutt’altro che di poco conto: se il SSN è obbligato a spendere diverse decine di migliaia di euro per terapia per gli antitumorali, è evidente che rischia di non avere a disposizione fondi per altre cure e per altre tipologie di risposte assistenziali, che sono comunque importanti: come per esempio assicurare ai pazienti, soprattutto nella fase terminale, la possibilità di ricevere buone cure palliative e antidolorifiche, aspetto che oggi è ancora molto carente su tutto il territorio nazionale.
Come mai questa situazione?
Ci sono a mio parere diversi livelli di responsabilità. Il primo è rappresentato dall’EMA, l’organismo europeo che si occupa dell’approvazione di nuovi farmaci: la considerazione che si può fare è che l’asticella per l’approvazione di prodotti nuovi è molto bassa e per di più manca una reale capacità di valutazione dell’efficacia di questi farmaci. C’è poi una responsabilità di chi immette il prodotto nel sistema della rimborsabilità, come l’AIFA per Italia, che dovrebbe dare più peso rispetto a quanto non faccia ora all’impatto in termini di salute, ma anche dell’area oncologica degli ospedali, dove si può verificare talvolta un uso inappropriato per tali farmaci. È documentato che molti farmaci antitumorali vengono somministrati uno o due mesi prima del decesso e, in generale, in situazioni in cui il paziente si trova a uno stadio avanzato, inutili da un punto di vista clinico e di efficacia, ma con impatti notevoli a livello di costi del sistema sanitario.
Tornando ai prezzi, quanto pesano le capacità negoziali di un paese?
Sicuramente in Italia la negoziazione, almeno in parte, funziona e questo può tradursi, magari, in un leggero contenimento dei prezzi rispetto ad altri paesi, ma il costo rimane sempre molto alto e, alla fine, quando si devono pagare più di 100mila euro a ciclo il bilancio generale ne risente.
Perché non si riesce a tenere i prezzi più bassi?
Perché non lo si vuole fare. L’industria ha naturalmente le sue logiche e punta a una massimizzazione dei profitti. Occorrerebbe, però, che gli Stati fossero più attenti ed eventualmente, in casi estremi, valutassero l’adozione di misure per rendere sostenibile l’accesso alle cure dei pazienti. Laddove l’accesso del paziente alla cura è messo in discussione per questioni economiche, credo che gli Stati possano anche arrivare a valutare misure estreme, fino alla sospensione del valore del brevetto, con un parziale riconoscimento all’industria di un importo più sostenibile. Pensiamo per esempio alla terapia dell’Epatite C, dove i nuovi farmaci hanno davvero una maggiore efficacia rispetto ai precedenti.
A proposito del sofosbuvir, l’industria farmaceutica ha spesso detto che i prezzi sono più alti nei Paesi che possono permetterselo e più bassi nei Paesi in via di sviluppo
In realtà sono alti ovunque: una cifra che per noi è ragionevole, per i Paesi in via sviluppo non lo è, soprattutto se si prende in considerazione il Pil o il guadagno procapite. Purtroppo se una terapia non può essere sostenuta nemmeno dai Paesi industrializzati, c’è qualcosa che non va. E non vorrei che, a fronte del fatto che si tratti di farmaci molto attivi, ci fosse una sorta di ricatto da parte dell’azienda detentrice del brevetto. Per questo credo che gli Stati debbano attrezzarsi migliorando il sistema di rimborsabilità e l’appropriatezza di utilizzo, e dall’altro contrapponendo un’azione forte per limitare i costi.
Francesca Giani – Sabato, 01 Agosto 2015 – Doctor33
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