Si tratta di un breve cartone animato che nel suo linguaggio spiega la notizia: dopo otto anni – da quando era già stata abrogata durante il governo Prodi e rimessa da quello a guida Berlusconi – le aziende non potranno avvalersi della possibilità di far firmare, al momento dell’assunzione, un foglio in bianco che verrà compilato con la data delle dimissioni quando il lavoratore o molto più spesso la lavoratrice che sta per diventare mamma non servono più.
L’idea dunque è buona se l’obiettivo era pubblicizzare una pseudo ‘ri-conquista’ in ambito lavorativo. Quello che mi sfugge però è perché lo spot poi prosegua glorificando e presentando come conquista le dimissioni telematiche “rapide, sicure e semplici”.
Ora: ben venga un sistema informatico che velocizzi e semplifichi la procedura da seguire per le dimissioni volontarie o in casi di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro ma chiedo se il problema dell’Italia sia proprio come formalizzare una interruzione condivisa di rapporto di lavoro.
Giusto per stare sull’attualità poi sono di queste ore i dati diffusi dall’Istat secondo cui a febbraio i disoccupati sono aumentati di circa 7mila unità, con un incremento dello 0,3% (mentre gli occupati sono 97mila in meno) con un’incidenza maggiore sugli uomini rispetto alle donne. Aggiungo: le lavoratrici non è che lavorano meno degli uomini, di solito lavorano in nero o in grigio per arrotondare lo stipendio del marito palleggiandosi tra l’impegno familiare e lavoretti a chiamata.
Ora però tutti ci sentiamo più tanquillizzati grazie allo spottone della Presidenza del Consiglio con i pupazzetti che sono felici di dirsi addio in modo consensuale: per la cronaca, secondo le statistiche questo tipo di interruzione di lavoro nel nostro paese riguarda annualmente 70mila persone. I disoccupati in modo non consensuale si diano pace ed attendano la prossima campagna pubblicità-progresso.
di Elisabetta Reguitti | 2 aprile 2016 | Il Fatto Quotidiano
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