Quella delle confezioni ottimali dei farmaci per ciclo di terapia è una vecchia e mai risolta questione alla quale – probabilmente – vengono dedicate meno attenzioni di quante invece ne meriterebbe.
Ad accendere un nuovo riflettore sul tema, nei giorni scorsi, è stato un grande quotidiano, La Stampa di Torino, con un articolo a firma di Paolo Russo che, già nel suo incipit, fornisce le coordinate essenziali del fenomeno: un farmaco su dieci finisce nel cestino perché le scatole contengono più o meno pillole di quelle che servono per completare la terapia. Uno spreco che da solo ci costa 1,6 miliardi l’anno. E che, aggiunto ad altri – come consulenze d’oro che, servano o meno, costano altri 780 milioni, servizi di mensa e pulizia pagati almeno un miliardo in più di quel che dovrebbero costare, project financing per costruire ospedali che richiedono esborsi equivalenti a quelli della realizzazione dello stesso ospedale, spese legali inutili per procedimenti contro medici e nosocomi che poi finiscono archiviati – porta a uno sperpero di 3,5 miliardi l’anno, secondo quanto emerge da uno studio del sindacato dei medici ospedalieri Anaao-giovani.
Un dato che suona ancora più grave e vergognoso, in un momento in cui nella prossima sessione di bilancio si durerà fatica a difendere i livelli di finanziamento del Fsn 2017, con il rischio che i previsti due miliardi in più che dovrebbero portarlo a 113 miliardi finiscano per essere di meno.
La Stampa, sul tema delle confezioni tutt’altro che ottimali dei farmaci, del quale si discute da tempo senza che però se ne venga a capo, solleva una serie di giustificati interrogativi: “Perché non si elimina? È solo spreco o anche dolo? Un farmaco buttato su dieci acquistati conviene anche a qualcuno? Innesta il meccanismo per cui butti gli “avanzi” della prima confezione e compri una seconda confezione intera?”
Il problema delle confezioni ‘sbagliate’ dei farmaci, proprio per la sua (almeno in teoria) facile soluzione, si presenta in effetti come particolarmente odioso: non esiste una sola ragione, almeno tra quelle confessabili, per permettere che a causa di scatole con un numero di pillole, compresse o fiale “starato” rispetto alle necessità imposte dal ciclo di terapia si sprechi il 10% dei medicinali (la stima è del prestigioso British Medical Journal).
Le perplessità (e con esse la rabbia) salgono se si pensa a tutte le norme che, negli ultimi dieci anni di leggi e manovre economiche condotte con la scure in mano, sono state varate per spingere l’industria a produrre “confezioni ottimali” di medicinali, realizzate sulla base della durata di una terapia. Norme che – va a sapere perché e per colpa di chi – non hanno evidentemente prodotto gli esiti sperati, almeno a giudicare dagli esempi portati a La Stampa da vicesegretario nazionale Fimmg Pierluigi Bartoletti.
Altro esempio, la ciprofloxacina, antibiotico anch’esso di largo impiego, venduto in scatole da 5 compresse anziché da sette. Cosa che rende necessario l’acquisto di una seconda confezione che comporta però, automaticamente, lo spreco delle restanti 3 pillole.
“Analogo spreco avviene per gli anti-ipertensivi per i quali le confezioni sono solitamente da 28 compresse” aggiunge Bartoletti. “Troppo poche per la terapia di un cronico, troppe per chi deve solo testare il funzionamento del farmaco, magari per solo 10 o 15 giorni”.
I quali, per il loro ruolo e la loro funzione, dovrebbero fare di tutto per “proteggere” i loro assistiti e il Ssn tutto da anomalie prive di giustificazione, anche costringendo le istituzioni – con ogni forma lecita di iniziative e pressioni persuasive – a intervenire per impedire che nel recinto della sanità italiana continuino a trovare spazio comportamenti che a qualcuno, nella loro sostanza, ricordano molto l’opportunismo degli sciacalli. Senza offesa per nessuno, naturalmente. Sciacalli compresi.
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