La Corte d’Appello aveva confermato il licenziamento di una lavoratrice “per giustificato motivo oggettivo, in quanto, come era possibile evincere dalle missive della società, era stato evidenziato che: a) nel periodo 1.1.2013 – 12.4.2015- aveva effettuato n. 157 giorni di assenza, per brevi ma ripetuti periodi di malattia; b) tali assenze erano significativamente superiori rispetto alla media delle assenze del restante personale e risultavano, altresì, nel 74% dei casi adiacenti a periodi di riposo e festività; c) ciò aveva inciso negativamente sull’organizzazione aziendale e sui livelli di produzione della unità organizzativa alla quale la dipendente era assegnata, con effetti diretti e negativi sull’erogazione del servizio in termini dì livelli di qualità, efficienza e regolarità“.
al datore di lavoro e, pertanto, incorrendo in un’errata sussunzione della fattispecie concreta in quella disciplinata dall’art. 3 della legge n. 604/1966.”
La Cassazione precisa: “In tal senso, mentre lo scarso rendimento è caratterizzato da inadempimento, pur se inconsapevole, del lavoratore, non altrettanto può dirsi per le assenze dovute a malattia e la tutela della salute è valore preminente che ne giustifica la specialità (cfr. Cass. n. 15523/2018). Solo il superamento del periodo di comporto, in un’ottica di contemperare gli interessi confliggenti del datore di lavoro (a mantenere alle proprie dipendenze solo chi lavora e produce) e del lavoratore (a disporre di un congruo periodo di tempo per curarsi senza perdere i mezzi di sostentamento e l’occupazione), è condizione sufficiente a legittimare il recesso e, pertanto, non è necessaria, nel caso, la prova del giustificato motivo oggettivo, né della impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa, né quella della correlativa impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse (cfr. Cass. 31.1.2012 n. 1404; Cass. 28.1.2010 n. 1861)“.
La Cassazione pertanto cassa la sentenza d’appello e rinvia nuovamente alla “Corte d’Appello in diversa composizione che procederà ad un nuovo esame della fattispecie osservando gli orientamenti citati e provvederà anche alla determinazione sulle spese del presente giudizio di legittimità“.
Nel diritto del lavoro, per periodo di comporto si intende il periodo di tempo durante il quale un lavoratore, assente per malattia o infortunio, conserva il proprio diritto al mantenimento del posto di lavoro. La sua durata è fissata dalla contrattazione collettiva.
Una volta decorso il periodo di comporto, se il lavoratore non rientra al lavoro, il datore di lavoro è libero di licenziarlo. In un simile caso non è necessario fornire la prova né del giustificato motivo oggettivo né dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa né dell’impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse.
In sede di un eventuale contenzioso il giudice potrà accertare soltanto se la malattia abbia effettivamente superato, nella durata, il termine prefissato.
Il datore di lavoro resta comunque libero di esercitare il diritto di recesso e, se lo fa, non deve dimenticare di rispettare le forme prescritte dalla legge per il licenziamento.
Peraltro, tale licenziamento non necessariamente deve essere immediato ma può avvenire anche dopo la ripresa dell’attività lavorativa da parte del dipendente, purché resti il nesso di causalità tra il recesso e il superamento del periodo di comporto.
Il lavoratore infortunato o in malattia, però, in alcuni casi. può essere licenziato anche prima che il termine del comporto sia spirato. Ci si riferisce, innanzitutto, al caso in cui si accerti che il lavoratore, a seguito dell’evoluzione della sua affezione morbosa, non sarà più in grado di riprendere la sua normale attività lavorativa o al caso in cui le particolari modalità di svolgimento di questa lo espongano a un’inevitabile ricaduta.
Nel lessico comune per “rendimento” si intende la misura con la quale una persona assolve le proprie funzioni e i propri compiti professionali. Il rendimento consiste nel risultato utile dell’attività svolta dal lavoratore in un determinato arco temporale. Lo scarso rendimento, di conseguenza, discende dalla condotta del dipendente che non adempie esattamente alla prestazione dovuta violando il proprio dovere di diligenza. Difficile, tuttavia, è attribuire alla diligenza una definizione giuridica certa, oltre che individuare gli elementi che compongono la fattispecie dello scarso rendimento perché la prestazione tipica soddisfa un’obbligazione di mezzi (e non di risultato come nel contratto d’opera).
La giurisprudenza ha evidenziato alcuni indici la cui esistenza costituisce prova dello scarso rendimento del lavoratore: in primo luogo, il risultato atteso deve essere inferiore rispetto alla media delle prestazioni rese dai lavoratori con la stessa qualifica e le stesse mansioni, indipendentemente dagli obiettivi minimi fissati; in secondo luogo, lo scarto deve essere notevole, deve cioè sussistere una sproporzione particolarmente rilevante tra il risultato del lavoratore e quelli medi degli altri lavoratori imputabile al lavoratore, di modo che si possa escludere che lo stesso sia determinato da fattori organizzativi o socio-ambientali dell’impresa stessa; ancora, sarà necessario valutare il comportamento del lavoratore (comunque fondato su dolo o colpa) in un determinato arco temporale e non in relazione ad un singolo episodio (o a sporadici casi) di sotto-rendimento.
È il datore di lavoro, in ogni caso, che dovrà dimostrare l’inadempimento notevole degli obblighi assunti (ossia lo scarso rendimento).In ogni caso per un ISF non potrà mai essere evocato uno scarso rendimento per le vendite ritenute insufficienti dei farmaci nella sua zona operativa.