La sovranità continentale, un tempo del popolo, è ora trasferita ai "mercati" che poi sono finanza internazionale, a sua volta espressione dei grandi patrimoni privati; e poi di interessi di banche, imprese multinazionali, società di assicurazione, fondi pensione. Il popolo può rispondere solo difendendo i beni comuni
Il “contagio greco” non esiste. La Grecia non è che il primo di molti birilli presi di mira nel gioco del bowling che tiene impegnata la finanza internazionale. Che le finanze greche possano salvarsi ormai non lo crede più quasi nessuno. Il gioco è solo quello di tirare per le lunghe perché non si intravvedono misure in grado di raddrizzare la situazione. Portogallo, Spagna, Irlanda o Italia potrebbero essere travolte, proprio come nel gioco del bowling, dalla caduta del birillo greco; ma ciascuno di questi paesi potrebbero anche essere il primo a cadere; ed essere lui, poi, a travolgere tutti gli altri. È l’intera costruzione dell’Unione europea che rischia il collasso. E al centro di questa evenienza c’è l’euro. L’idea che si possa espellere dall’euro, uno a uno, i corpi infetti non sta in piedi. Intanto, anche da un punto di vista materiale, è un’operazione assai difficile; senza procedure; e tanto più rischiosa se attuata non secondo un piano cadenzato, ma sotto l’incalzare della speculazione. L’euro ha privato i governi degli stati membri di due degli strumenti tradizionali delle politiche economiche: la svalutazione e l’inflazione controllata (attraverso l’emissione di nuova moneta). Il terzo, la fissazione del tasso di interesse, non la fanno più né gli stati membri né la Bce. Chi la accusa di immobilismo non tiene conto che nel contesto attuale tassi di sconto più bassi fornirebbero denaro più facile non all’investimento produttivo, ma alla speculazione. Ma il fatto è che da tempo l’indebitamento degli stati membri ha consegnato la fissazione dei tassi di interesse – vedere per credere – ai cosiddetti “mercati”, a cui i governi di tutto il mondo si sono assoggettati. Una condizione di subalternità che per alcuni decenni è stata “prerogativa” dei paesi del cosiddetto “Terzo mondo”, strangolati dal Fondo monetario internazionale; ma che la globalizzazione sta ora estendendo a tutti i paesi del pianeta. Per invertire rotta l’Unione europea dovrebbe probabilmente assumere – e “sterilizzare” – buona parte dei debiti degli stati membri: un default continentale, che certo sarebbe preferibile alla caduta in ordine sparso dei singoli stati. In entrambi i casi, con i tempi che corrono, a rimetterci saranno tutti: economie “forti” comprese.
Ma che cosa ha ridotto governi e partiti a competere tra loro facendo a gara a chi è più adatto o capace di soddisfare o tacitare i “mercati”? E che cosa sono mai questi “mercati”, ai quali è stata trasferita quella “sovranità”, cioè il governo della vita di milioni di persone, che le Costituzioni di tutti gli stati democratici assegnano al popolo? Sono la finanza internazionale, la forma più compiuta, astratta e “delocalizzata” del capitale. Dietro il quale ci sono però grandi patrimoni privati – si chiamino hedge fund, private equity o fondi di investimento – che sono cresciuti grazie a un gigantesco trasferimento di ricchezze (mediamente, il 10 per cento del Pil di quasi tutti i paesi; il che, per un salario, può però voler dire il 30-40 o anche il 50 per cento del potere d’acquisto) dai redditi da lavoro a quelli da capitale. Poi ci sono le grandi banche, a cui la deregolamenta