La morte di un farmacista che contribuiva alla cultura di un paese
La morte di un farmacista mi turba particolarmente. Mi è sempre piaciuto immaginare che dentro una farmacia ci sia un rimedio a tutto, a ogni malattia, a ogni malinconia.
Sì, credo nelle favole e nelle pillole. E stravedo per i farmacisti che non chiedono la ricetta, per i professionisti che non vogliono fare i caporali del servizio sanitario nazionale, per i galenici che rifiutano di degradarsi a commessi dell’industria farmaceutica.
Giuseppe Sgarbi l’ho conosciuto quand’era già in pensione ma ho letto i suoi libri di ricordi e posso definirlo campione di quel tipo di farmacista umanista che un tempo, assieme al parroco, al medico condotto, all’eventuale notaio, all’eventuale avvocato, dava il tono culturale ai paesi della provincia italiana.
Era amante della caccia, della pesca, della buona cucina e delle belle lettere, specie della poesia che leggeva ai suoi bambini e che sono diventati Vittorio ed Elisabetta Sgarbi anche grazie a quei versi di Omero, Ariosto, Leopardi. Età dell’oro! Se ho sognato che una comune farmacia potesse contenere un rimedio per ogni male, figuriamoci quanto ho potuto fantasticare intorno a una farmacia che a sua volta conteneva una libreria… Riposi in pace, Giuseppe Sgarbi, mentre io in pace non sono perché scossa è la mia fiducia nelle poesie e nelle pillole.